Cronaca

Al Ponchielli la follia di Lucia di Lammermoor senza troppi sussulti

foto Sessa

Un telo bianco, increspato a formare sagome e ombre sulla sua superficie, si levava lentamente dal palco, dispiegandosi fino a formare, ormai in verticale, una trasparente, impalpabile quarta parete di garza. Mentre correvano le note del Preludio, l’oscurità del fondale lo faceva rassomigliare ad un mare di notte, al mare minaccioso che sferza senza posa le coste scozzesi e ne rende selvaggio il profilo. E improvvisamente, ecco quel mare color inchiostro tingersi del colore del sangue e d’un tratto animarsi e farsi tempestoso, ribollente.
Così, nell’essenziale soluzione di una pellicola – involucro fondata sui soli accenni scenografici sui cui, di atto in atto, venivano proiettati alberi spogli, graffi di colore alla Pollock con tanto di svastica laterale (icona di odio insensato, folle, appunto) scenari da brughiera o margherite di campo, la regia di Henning Brockhaus tracciava il perimetro narrativo per la sua Lucia di Lammermoor, ultima opera in cartellone al Ponchielli di Cremona.
Sabato 8 dicembre, data dell’ultima delle due rappresentazioni previste, ad accogliere il capolavoro di Gaetano Donizetti era una città paralizzata dal freddo polare, avvolta in una nebbia surreale che ne sospendeva i contorni in un’immagine da cartolina natalizia. Gelo per le strade, timido tepore in sala, dove per una volta – in netta controtendenza rispetto all’usuale – spiccavano i posti vuoti in platea, colpa forse delle strade ghiacciate o forse dei puntuali malanni di stagione. E a non scaldare a dovere l’atmosfera non erano gli applausi mancanti per defezione, ma piuttosto la conduzione senza sussulti, filiforme e pallidamente regolare a scapito del variegato e divorante tessuto donizettiano, di Matteo Beltrami, accolto a fine recita con applausi ma anche con diffuse note di dissenso.
Dal canto suo, anche l’orchestra de I Pomeriggi Musicali appariva sin dal quadro introduttivo in affanno nel ricreare la tinta drammaturgica voluta dal compositore, straordinariamente presaga già nel severo corale ben presto spazzato via da una scrittura affilata e pungente, modernissima in quel 1835 in cui l’opera debuttava, trionfalmente, al S. Carlo di Napoli. La vicenda, tratta dal romanzo “The Bride of Lammermoor” di Walter Scott, ricalca i più tradizionali topoi dell’amore contrastato tra due giovani appartenenti a famiglie rivali; qui siamo nella Scozia oscura del declinante XVI secolo; la penna agile di Salvatore Cammarano ne trae spunto per un omaggio al romanzo storico che, più che guardare alle nordiche brughiere, pare interessato ad esplorare le possibili frontiere dell’animo umano, il confine labile, spesso trasparente quanto la tenda issata in scena, tra lucidità e follia. La pazzia che travolge Lucia, costretta a rinunciare all’amore di Edgardo e ad accettare, su imposizione del fratello Enrico, le nozze con Lord Arturo Bucklaw, è un delirio sottile, lancinante proprio perché consumato nel segreto della mente, una febbre leggera e quasi impossibile da rendere senza sconfinare nella caricatura. Per questo, oltre che per le impervie volute virtuosistiche, la celeberrima Aria della Pazzia che Donizetti incastona nel bel mezzo di un temporale (qui relegato a pioggerellina innocua) è uno dei momenti che da sempre avvincono il pubblico e terrorizzano gli esecutori. A rendere la giusta, folle leggerezza di una mente perturbata, animata da insensate visioni, ancora gocciolante per l’omicidio del consorte, era la Lucia di Ekaterina Bakanova, impeccabile nello scolpire con arabeschi mai stucchevoli le sinuose linee del suo canto, plastico dagli accenti più gravi alle note sovracute. Un’eroina che appariva in scena con abiti da debuttante anni ’30, ingenua nel prato vagamente hippy che subito trascolorava in sorgente quando giungeva ad abbracciarla l’adorato Edgardo, prima di partire in missione “pe’ i Franchi lidi amici”; e di atto in atto, eccola indossare prima l’abito nunziale vagamente somigliante ad una camicia di forza e poi – sorpresa nella cruenta intimità del suo talamo – la sottoveste insanguinata che decreta la sua colpevolezza di folle, di assassina per amore. Accanto a lei, accolta da ovazioni, l’Edgardo di Francisco Corujo e l’Enrico di Serban Vasile, coraggiosi e nel complesso efficaci (anche se al loro ruolo di implacabili antagonisti non avrebbe disdegnato una più marcata punta di veleno) e il Raimondo di Giovanni Battista Parodi, bravo a costruire con voce e scena il personaggio più coerente e sfaccettato dell’intero cast.

Elide Bergamaschi

Galleria fotografica di Francesco Sessa


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