Cultura

24 aprile '45, assalto alla Banca
d'Italia per preparare la fuga

Nella ricerca dello storico Fabrizio Superti, un episodio inedito che rivela il precipitare degli eventi a Cremona nei giorni a ridosso della Liberazione

Quando nelle prime ore del 21 aprile 1945 i soldati polacchi, inquadrati nel secondo Corpo dell’Ottava Armata Britannica, entravano nella città di Bologna, rimanevano quasi stupiti di non incontrare alcuna resistenza al loro arrivo. Con l’arrivo in pianura delle truppe Alleate, ormai le sorti del conflitto in Italia si andavano definendo in tempi rapidi; le truppe nazifasciste risalivano in gran fretta le città emiliane con l’obiettivo di trincerarsi oltre il fiume Po. La repentina avanzata delle truppe Alleate suscitava forte impressione anche nella città di Cremona dove le rassicurazioni espresse dalle autorità locali fasciste non bastavano a contenere i timori presso le compagini militari e civili più compromesse del Regime.

“La situazione contingente, che non è mai stata critica, va sempre più distendendosi; le notizie che giungono dalla Germania forniscono la più chiara percezione della riscossa.(..)La Patria e l’Idea si difendono con fermezza e decisione ed è proprio in questi momenti in cui è possibile individuare con estrema chiarezza i purissimi figli dell’Idea e della Patria e al contempo i pavidi, gli opportunisti di tutte le ore, putrida zavorra di una Patria che può e deve fare a meno di loro.”

 

La caserma Paolini, dove ora sorge il complesso scolastico Ghisleri – Vacchelli all’angolo tra viale Trento e Trieste e via Palestro

Questa dichiarazione, contenuta nella relazione emanata il 25 aprile dal comandante interinale della caserma Paolini, appariva come un estremo tentativo di rassicurare un ambiente militare ormai pervaso da un senso di imminente disfatta. La struttura militare, collocata in via Palestro (dove poi è sorto l’istituto tecnico per geometri Vacchelli) ospitava i militi della 12esima Brigata Nera “Augusto Felisari” al cui comando provvedeva, dal 7 aprile, Renato Marinelli, un giovane ufficiale ventisettenne di origini molisane. Lo stesso rimarcava come la situazione bellica per Cremona non fosse affatto compromessa stante anche la presenza di ingenti forze tedesche ancora in grado di opporre un valido contrasto alle truppe Alleate poste oltre il fiume.

Il propagarsi di notizie allarmanti al pari di tentativi di sobillazioni andavano, secondo il comandante, stroncati con estrema decisione mediante l’immediata fucilazione di coloro che infrangessero la disciplina imposta. La sua nota in realtà avveniva postuma rispetto ad una notte assai travagliata che aveva visto la fucilazione, tramite raffica di mitra, di un sergente maggiore di stanza alla Paolini accusato di disfattismo verso i commilitoni. Nella tarda serata del 24 aprile il sergente Rossi, che fungeva da responsabile di picchetto, pare avesse ricevuto una telefonata che lo informava che punte corazzate angloamericane avessero già raggiunto Cingia de’ Botti e quindi ormai prossime a raggiungere Cremona. La notizia finiva ovviamente per creare una diffusa fibrillazione fra i militi presenti alcuni dei quali, stante la situazione, erano propensi a lasciare la caserma; fra questi si segnalava il sergente Odardo Piuma il quale, dimessa la divisa, pare invitasse i commilitoni a seguire il suo esempio prima che la situazione precipitasse.

 

Lo stato di tensione che si respirava in caserma era acuito dall’assenza del comandante che sopraggiungeva solo dopo esser stato informato degli episodi di insubordinazione che si andavano manifestando. In realtà il Marinelli in seguito dichiarerà che, nonostante i roboanti proclami, la sera del 24 aveva deciso di trovare rifugio presso una famiglia di Cremona stante il prevedibile tracollo del regime fascista. Nella mattinata dello stesso giorno era stato, infatti, informato dei preparativi per organizzare la fuoriuscita da Cremona in direzione Milano; la sua contrarietà a proseguire nella fuga verso un futuro incerto lo aveva pertanto indotto a cercare sicura ospitalità in città.
Il rientro del comandante in caserma si univa al sopraggiungere del Commissario Federale di Cremona Antonio Milillo, ventiquattrenne che dal precedente mese di marzo guidava la Federazione dei Fasci della Città. Napoletano d’origine, aveva già partecipato ai fronti di guerra nei Balcani e dall’autunno del ’44 dirigeva il tristemente noto Ufficio “I” investigativo adibito al contrasto della lotta partigiana in provincia di Cremona.

La giornata del 24 aprile doveva risultare per il giovane Federale una sequenza di episodi che finirà per condizionare pesantemente la sua posizione di fronte alla giustizia. In mattinata aveva predisposto un comunicato in cui smorzava le notizie riportate dai componenti le Brigate Nere delle città emiliane giunti in città che rappresentavano uno scenario militare ormai al collasso. “La nostra provincia- ricordava- ha in sé una difesa naturale formidabile: il Po. Il nemico non può essere per ora in condizioni di passare il fiume anche perché occorrerà parecchio tempo prima che possa disporre di mezzi necessari per gettare i ponti. Quindi nervi a posto. I fascisti che si presenteranno per chiedere notizie e disposizioni dovranno ricevere la seguente risposta: il tuo dovere è di venire con noi e vestirti in divisa della Brigata; ti armeranno e seguirai la nostra comune sorte; in questo caso ci preoccuperemo anche della tua famiglia; in caso contrario arrangiati”.

Milillo ordinava inoltre la sospensione di tutte le licenze e l’accasermamento in divisa obbligatoria anche presso i presìdi esterni; nessun appartenente alle Brigate Nere doveva ripiegare senza ordini precisi mentre si dovevano approntare centri di resistenza contro eventuali attacchi operati dai partigiani o da truppe nemiche paracadutate.
Il Federale giungeva intanto dopo la mezzanotte nella caserma Paolini in compagnia del fidato autista Arnaldo Aschieri e di altri militi; la sua presenza non bastava a calmare i militi in cerca di rassicurazioni sull’andamento del fronte bellico. Mentre il Federale visitava gli interni della caserma avveniva un duro alterco fra l’Aschieri e il sergente Piuma che, secondo i testimoni, invitava i compagni d’armi a lasciare la caserma; lo scontro terminava con una raffica di mitra sparata dall’Aschieri all’indirizzo del sergente che rimaneva colpito a morte.

Il suo corpo, pare preso a calci dal suo uccisore, veniva collocato sopra un mucchio di ghiaia all’interno del cortile come monito per i presenti. La ricomposizione del cadavere e il recupero dei suoi effetti personali avveniva grazie all’interessamento del frate don Ferdinando Morolli, cappellano della Brigata Nera. La responsabilità del tragico episodio costituirà, in seguito, un capo di accusa nei confronti del Milillo; l’Aschieri aveva agito per conto proprio o aveva assecondato un ordine ricevuto dal suo superiore? La questione risulterà poi di difficile soluzione anche perché deceduto l’Aschieri, fucilato di lì a pochi giorni, la ricostruzione dei fatti rimaneva affidata a chi, terminata la guerra, tenderà a scaricare le responsabilità su chi ormai non poteva più offrire la propria versione.

Secondo alcune indiscrezioni al Milillo, coniugato con una americana, pare avesse giovato – se non l’appoggio – almeno una sorta di benevolenza da parte delle Autorità Alleate.

La sede Aci di via XX Settembre. A metà dell’800 questo antico palazzo era stato adattato a sede della Banca d’Italia

IL TENTATIVO DI RAPINARE LA BANCA D’ITALIA – La giornata del 24 aprile per il giovane Federale doveva comunque risultare ancora gravida di ulteriori complessi episodi; nonostante le direttive e le rassicurazioni impartite ai suoi commilitoni, Milillo tentava una operazione assai ardita per racimolare un capitale tale da garantire un sostegno finanziario adeguato nell’ organizzare la ritirata verso Milano e la Valtellina.

L’intento progettato dal Federale pare che fosse emanazione di una indicazione giunta dai vertici del partito, tanto che si manifestava anche in altre realtà del Nord Italia (come Novara). L’obiettivo prevedeva di prelevare circa trenta milioni dalla cassaforte della locale filiale della Banca d’Italia; l’asportazione di tale somma, assai rilevante all’epoca, risultava un’infrazione ad una sorta di santuario dello Stato ritenuto inviolabile per qualsiasi autorità.

La succursale cittadina della Banca d’Italia era collocata nei locali della ex casa Vernazzi, posta in via xx Settembre, poi riadattata per accogliere gli uffici bancari; l’edificio in oggetto, oggi sede dell’ACI, subiva, infatti, nel tempo alcune modifiche relative sia agli interni (1909) quanto alla conformazione della facciata esterna (1923).

Nella mattinata del 24 aprile, Milillo comunicava al direttore dell’Istituto bancario di aver necessità di tale somma e dell’intenzione di prelevarla anche con la forza; il direttore, nella persona di Della Monica, opponeva un netto rifiuto nel concedere ogni tipo di risorsa non conforme ai dettami propri dell’Istituto. Il diniego manifestato dal direttore, espressione non comune e scontata di responsabilità visti i tempi, non scoraggiava affatto il Federale che organizzava, con il fido Aschieri, una sorta di sequestro del riottoso funzionario al fine di recuperare la chiave per accedere ai depositi bancari.

Il timore di una eventuale sortita ai suoi danni induceva fortunatamente il Della Monica a trovare rifugio presso amici in modo tale da sfuggire alle forsennate ricerche che l’Aschieri e i suoi commilitoni operavano tanto presso gli uffici della Banca che in ritrovi dove il direttore era solito intrattenersi. In tal modo la trappola tesa non si concretizzava e i depositi presso la banca rimanevano intonsi e salvaguardati.

Il 30 aprile, Milillo veniva arrestato e processato, in prima battuta, dalla Corte d’Assise Straordinaria di Cremona proprio per il tentativo di “rapina” operato presso la Banca d’Italia; la fattispecie del reato commesso rientrava, secondo il capo d’accusa, sotto il profilo dell’articolo 51 del codice penale militare e, ritenuto di particolare gravità, sanzionabile con la fucilazione nella schiena del condannato. Vista la giovane età dell’imputato la Corte si orientava verso una moderazione della pena ed emetteva pertanto una condanna a trent’anni di carcere. Nei mesi seguenti la Corte di Cassazione di Milano annullava la sentenza e rinviava il caso alla Corte d’Assise di Mantova.

Fabrizio Superti, storico

Il monumento ai Caduti per la Liberazione, opera di Dante Ruffini, collocato all’angolo tra via Palestro e viale Trento e Trieste (scuola Vacchelli)

 

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