Cronaca

Martinotti, "battaglia" tra consulenti
"Quel paziente era operabile?"

Nuova udienza del processo contro l’ex primario del reparto di Chirurgia dell’ospedale di Cremona Mario Martinotti, 65 anni, di Pavia, accusato di quattro casi di omicidi colposi. Per il pm Davide Rocco, Martinotti avrebbe sottoposto quattro pazienti ad operazioni di cui non avrebbero avuto necessità. I fatti contestati vanno dal 2015 al febbraio del 2019.

Oggi parola ai consulenti tecnici che hanno sviscerato il caso di Pasquale Dornetti,  78 anni, di Credera Rubbiano, che soffriva di un tumore al fegato, una massa di 12 centimetri. Per i medici dell’ospedale San Raffaele di Milano, era inoperabile. Non così per Martinotti, che il 30 giugno del 2017 lo aveva sottoposto ad un’operazione chirurgica. Per l’accusa, durante l’intervento era sorta una lacerazione della via biliare all’ilo epatico: una complicanza che lo aveva riportato in sala operatoria il 10 luglio successivo. La morte era sopraggiunta quattro giorni dopo per l’insorgere di un episodio acuto cardiovascolare.

In aula i consulenti tecnici del pm, il medico legale Andrea Verzeletti e il chirurgo Gianluigi Melotti, hanno ricordato che il trattamento di chemioembolizzazione a cui era stato sottoposto il paziente aveva ridotto le dimensioni del tumore a 8 centimetri, “una massa particolarmente voluminosa”, ma nonostante ciò, al San Raffaele, dopo un consulto disciplinare, l’operazione era stata sconsigliata.  “Corretto”, per i due consulenti dell’accusa, anche per via della collocazione anatomica del tumore, che si trovava al centro del fegato. Per i due esperti c’erano troppi rischi, tanto che si era formata una lesione delle vie biliari con fuoriuscita della bile, complicanza che aveva costretto l’equipe ad una nuova operazione. Il paziente era poi andato in arresto cardiorespiratorio. “E’ altamente probabile “, hanno sostenuto i due esperti, “che quella lesione sia avvenuta durante l’intervento chirurgico”. Intervento che aveva “un rischio eccessivo”. Verzeletti e Melotti, che hanno ricordato che sul corpo del paziente non era stata fatta l’autopsia, hanno parlato di “carattere molto repentino del decesso. Una rapidità che porta a pensare ad un evento cardiovascolare”. Per i due consulenti, il paziente avrebbe potuto essere sottoposto ad un altro trattamento di chemioembolizzazione per monitorare il tumore.

Nel processo contro Martinotti, assistito dagli avvocati Carlo Enrico Paliero, Luca Curatti e Vania Cirese, c’è anche l’Asst, chiamata in causa come responsabile civile dagli avvocati di parte civile Guido Maria Giarrusso e Mario Palmieri. L’Asst è rappresentata dall’avvocato Diego Munafò, che ha portato in aula i consulenti Nicola Cucurachi, medico legale, e il chirurgo Paolo Soliani, che hanno difeso l’operato di Martinotti. “L’obiettivo”, hanno sostenuto i due esperti, “era quello di ridurre il volume del tumore per ridurre il rischio operatorio. Il San Raffaele aveva indicato che il vero rischio per una massa così grossa era quello vascolare, che nel caso specifico non si è concretizzato”. Per Cucurachi e Soliani, è stato grazie alla riduzione della massa che è stato possibile operare, non rendendo vano il percorso palliativo che si era fatto con la chemioembolizzazione. “L’intervento è stato metodologicamente corretto. Senza l’operazione, il paziente avrebbe avuto una prognosi di sei mesi, mentre se non ci fosse stata quella complicanza, l’aspettativa di vita era di cinque anni”. Cucurachi e Soliani hanno anche ricordato che il paziente era a conoscenza da mesi della sua situazione. “Ha scelto consapevolmente questa strada stretta e tortuosa. Il costo era quello di non sopportare l’intervento chirurgico, ma se ci fosse riuscito avrebbe potuto vivere più a lungo. Non mesi, ma anni”.

Per quanto riguarda la causa della morte, il medico legale Cucurachi, in mancanza di un’autopsia, che, ha ricordato, poteva essere anche richiesta dai familiari, ha sostenuto che “l’ipotesi dello stato settico resta una mera ipotesi”. Una possibilità totalmente esclusa dal consulente della difesa, il chirurgo Mauro Filauro, secondo il quale “Dornetti era a rischio sepsi quando le sue condizioni  generali erano peggiorate. Per questo il 10 luglio era stato riportato in sala operatoria e in quel frangente era stato salvato”.

Da parte loro, i consulenti dell’Asst hanno chiamato in causa “una fistola che si è formata in due tempi con un meccanismo di tipo ischemico. Se si fosse creata durante l’operazione il chirurgo non avrebbe potuto non vederla. Si è trattato di una complicanza post operatoria”.

Per quanto riguarda infine l’intervento della difesa, il consulente Filauro ha premesso di collaborare da sempre con i colleghi del San Raffaele e di essere il primo a chiedere un parere per casi particolari e complessi. “Spesso ci si trova d’accordo, altre volte no”. Per Filauro, anche rifare la chemioembolizzazione sarebbe stato un rischio: “ha solo finalità palliative ed è tossica, gli effetti collaterali sono rilevanti. Ne è uscito, ma avrebbe potuto provocargli effetti ischemici”. “L’operazione”, ha spiegato il consulente, “è stata una decisione presa in seguito ad una valutazione collegiale con oncologi, radiologi e anestesisti. Non è più il chirurgo che decide sulla vita e sulla morte”. L’esperto ha poi aggiunto che “di lesioni biliari non ce n’erano”, ma che purtroppo “il tumore comprimeva la biforcazione biliare e la pressione e l’effetto ischemico possono aver causato un indebolimento delle pareti della via biliare che si sono aperte, non bucate, facendo aumentare sempre di più la perdita di bile tanto da non poterla più contenere con i drenaggi. E’ stata una complicanza inaspettata”.

Si torna in aula il prossimo 12 ottobre con la continuazione dell’esame dei consulenti.

Gli altri omicidi colposi contestati a Martinotti:

C’è il caso di Giuseppina Zanardi, 75 anni, operata al pancreas da Martinotti l’11 marzo del 2015. Per l’accusa, “con grande imprudenza”. Alla paziente, il chirurgo doveva togliere una lesione rilevata dalla Tac il 23 febbraio precedente e da una ecoendoscopia il 27 febbraio successivo. Ma non aveva fatto fare la biopsia per accertare se la natura di quella lesione fosse benigna o maligna. Durante l’intervento, il medico avrebbe cagionato alla paziente una massiva emorragia, causandone il decesso.

Renzo Tanzini, invece, aveva 51 anni, con un tumore al duodeno che aveva già intaccato il pancreas. L’allora primario lo aveva correttamente sottoposto ad un intervento chirurgico, ma secondo l’accusa avrebbe anche effettuato una colectomia totale basandosi esclusivamente su una colonscopia, senza accertare, facendo la biopsia, se una lesione ‘non polipoidale’ rilevata nel colon fosse benigna o maligna. L’8 giugno del 2016, durante l’operazione, era insorta una sofferenza ischemica dell’intestino tenue. Per la procura, Martinotti aveva fatto fare solo una Tac all’addome senza procedere immediatamente ad un’angiografia che gli avrebbe consentito di verificare la natura e la sede della sofferenza vascolare, e di procedere adeguatamente e in modo tempestivo. Il paziente era stato operato di nuovo, ma solo il giorno dopo, quando il quadro clinico era ormai compromesso. Il 51enne era stato sottoposto ad altri 16 intervenenti chirurgici con i quali gli era stato asportato l’intestino quasi interamente. Tanzini è deceduto il 15 agosto.

Renza Maria Panigazzi aveva 75 anni. Soffriva di una lesione cistica alla testa del pancreas. Martinotti l’aveva operata il 3 dicembre del 2018, anche se la lesione era benigna, così come dimostrato dagli esami diagnostici e dai marcatori tumorali negativi. Anche per lei nell’operazione era sorta una complicanza: un’ischemia al fegato. Secondo l’accusa, a quel punto il primario non aveva disposto alcun intervento, come ad esempio una epatectomia. Renza Maria morirà il 7 febbraio del 2019 per un grave stato settico.

Sara Pizzorni

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