Cronaca

Da cascina Moreni il racconto
di Elena: "Sogno di tornare a Kiev"

Dalle bombe di Kiev alla pace di Cascina Moreni a Cremona (“amo passeggiare nel giardino esterno della struttura”), sempre però col pensiero rivolto a casa, al marito, che in Ucraina è rimasto a combattere. La storia è quella di Elena Yurenkova, 36 anni, attrice di teatro da 20, due figli, svegliata di soprassalto quel 24 febbraio alle 4 di mattina dalla chiamata di un’amica, che le rivelava che la guerra era cominciata.

“Inizialmente ero incredula – racconta Elena -. Chiaramente tutti noi sapevamo che qualcosa si stava muovendo al confine, perché tanti carri armati erano stati schierati. Ma non credevamo si arrivasse a tanto, perché abbiamo sempre considerato i russi nostri fratelli. Invece non era così. E quella che sentivamo non era soltanto propaganda ma l’anticamera della verità”.

Accanto a Elena, che si commuove spesso nel suo ricordo, c’è Anna, la sorella che vive a Cremona da qualche anno e si è subito attivata per trovare ad Elena e ai suoi due figli una stanza a Cascina Moreni. Tornando alla 36enne, la mattina del 24 febbraio è stata subito una corsa al rifugio più vicino. “Ma era già pieno, sono rimasta stupita da quanta gente potesse contenere e da quanta gente si fosse mossa nell’immediato, dato che pure io non avevo perso tempo. L’Ucraina ha molti rifugi anti aereo, perché sono una sorta di residuato della Seconda Guerra Mondiale. A quel punto ci siamo spostati in chiesa, ma sapevamo benissimo che era un rischio. I militari sono ben consapevoli che nelle chiese, e nei sotterranei in particolare, si nascondono moltissimi civili. Per questo colpiscono le chiese, in modo deliberato, perché vogliono mettere paura e convincere il popolo ad arrendersi. Per vincere una guerra lampo, devi colpire anche i civili. Ricordo, a parte la paura, il gran freddo: il termometro segnava -17°C”.

Il quartiere dove Elena vive è quasi distrutto e a quel punto “ho preso la decisione più brutta della mia vita. In chiesa abbiamo resistito 3-4 giorni, poi ho scelto di partire. Ho salutato mio marito a Kiev, perché lui non poteva scappare, come tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni. Ci ha accompagnato lui in stazione ferroviaria, in auto, perché su quattro ruote non ci avrebbero mai lasciato passare il confine. Ricordo scene strazianti: bambini che salutavano i papà, mogli che salutavano i mariti, dicendosi arrivederci ma non si sa a quando. E ricordo che quasi tutti avevano piccole valigie, perché c’era grande solidarietà tra di noi: infatti ogni valigia è il posto di qualcun altro sul treno, quindi davvero siamo tutti partiti portando con noi il minimo indispensabile”.

Il treno per Leopoli, il contatto coi volontari, un contatto salvifico che porta Elena a Cracovia, poi finalmente l’Italia come salvezza. “Quando siamo arrivate a Leopoli, ci siamo riunite anche a mia mamma. Abbiamo passato una notte lì, poi ho contattato un’amica che su Facebook aveva parlato della possibilità di spostarsi verso la Polonia a Varsavia. Ho però scoperto che i primi viaggi sarebbero stati verso Cracovia, dunque più a sud. E allora abbiamo deciso di partire per Cracovia. Una volta arrivati, c’erano 6mila persone in fila davanti a noi per avere un alloggio. Siamo rimasti in piedi tutto il giorno, a -10°C, per attendere il nostro turno. Ne è valsa la pena: è vero che il giorno dopo ci siamo tutti ammalati con un attacco di gastroenterite, ma ci siamo ripresi e avevamo il nostro alloggio. Ci hanno sistemati in un rifugio di montagna e dobbiamo dire un grazie enorme al grande popolo polacco. Così come a quello italiano: quando siamo riusciti a partire da Cracovia, abbiamo saputo di questi aerei su Milano Malpensa e, col contatto costante di mia sorella Anna, abbiamo trovato un posto a Cremona, a Cascina Moreni, dove siamo adesso”.

E anche se Elena sta studiando italiano e cerca un lavoro, magari proprio nel campo della recitazione, il sogno è di tornare a casa presto. Anzi prestissimo. “I miei bambini inizieranno a breve il Grest qui a Cremona, io sto studiando italiano anche se faccio fatica, pur essendo una esperienza stimolante. In generale ci stiamo tenendo pronti a tutto, ma la voglia è di tornare al più presto. Noi abbiamo una speranza, che è anche un sentore comune: come la guerra è iniziata in un giorno, in un giorno finirà. Del resto, come si dice da noi, se non ti aggrappi alla speranza, tanto vale essere già all’inferno. Tutti i giorni aspettiamo i nostri mariti che ci chiamano e ci dicono che è tutto finito. Anche perché questa storia già è andata avanti molto – troppo – a lungo. Pensavamo di restare via di casa una settimana, sono ormai quattro mesi. Io, personalmente, ho un sogno”.

Quale? “Che i miei bambini tornino a scuola a Kiev a settembre, con l’inizio del nuovo anno scolastico”.

Giovanni Gardani 

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