Lettere

Ricordo della Grande Guerra, per
condannare sempre ogni guerra

da Teresio Bianchessi

Mio padre, classe 1899, la guerra ha fatto in tempo a vederla con i propri occhi; fu tra i 265.000 giovani chiamati al fronte dal Generale Armando Diaz nel 1917, ultima leva, ultima carne da cannone, non tutti avevano compiuto i 18 anni.

“…Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora…” – sono parole del Generale che ancora mi irritano.

Le sere d’inverno, dopo che anche l’ultimo ceppo si era consumato, ci si attardava con mio padre davanti al camino, rovistavamo nella cenere per scovare le ultime braci, gli facevo molte domande, sui cavalli, sui campi, sui temporali, ma quella più insistente e quella alla quale lui, cocciutamente, rifiutava sempre risposta era quella sulla guerra.

“Babbo raccontatemi della guerra… voi cosa facevate… com’era… raccontatemi degli assalti… dei cannoni… le baionette… le trincee.”

In campagna, a quei tempi, noi bimbi davamo un tenero e familiarissimo “voi” ai nostri genitori.
Cocciuto lui a non rispondere, ancor più cocciuto io nel continuare a chiedere e quella sera, dopo che una grossa brace tornò in superficie, papà Amedeo mi rispose:

“G’ho est al soldat vizì a me sàlta per aria a tòch.”
“Ho visto un soldato vicino a me saltare in aria a pezzi.”

Lo fece con una tale rapidità e durezza che chiaramente mi fece intendere che più, mai più mi avrebbe permesso di tornare sull’argomento; subito dopo gettò rabbiosamente la cenere sopra la fiamma e sparì nelle stanze di sopra.
Intuii quella sera che prima di allora mai a nessuno aveva raccontato quel tragico ricordo e forse quella mia infantile petulanza parzialmente lo aiutò a liberarsi di quel peso sul cuore.
Pur piccino ebbi, quella sera, una essenziale, vera, cruda lezione di storia che mi scosse e mi illuminò.
La grande guerra terminò il 4 novembre del 1918 e da allora ogni anno si celebra il giorno della vittoria e quel 4 novembre del 1951 la maestra ci comunicò che anche noi bimbi delle elementari avremmo partecipato alla manifestazione che si teneva in piazza del comune.
Rumorosi, eccitati, uscimmo dalla classe e ci avviammo verso il municipio, la giornata era grigia, una pioggerella insistente lasciava presagire l’inverno; arrivati la maestra ci allineò in fila due per due, ci raccomandò compostezza e massimo silenzio perché sul balcone del comune c’era già il Signor Sindaco pronto per il discorso.
Guardammo curiosi prima all’insù, poi dietro di noi dove, schierati, c’erano i combattenti e i reduci con le bandiere e i gagliardetti.
Non fu la pioggerella uggiosa e insistente a toglierci l’euforia, ma il viso triste, tristissimo di tutti quegli adulti presenti, muti, pensierosi, a testa bassa si aggrappavano alle loro bandiere, trattenevano a stento le lacrime.
Tutta la classe restò impietrita, ci avevano detto che era la festa della vittoria, pensavamo di trovare allegria, clima festoso invece, invece…
Lo capii dopo il dolore di quella vittoria che portò morte in ogni paese, borgo, contrada, arrivando fin nella cascina più sperduta; capii anche che a quel dolore, in quei primi anni ’50, si univa quello più recente, carico di livori, ancor vivo, della sconfitta della seconda guerra mondiale; quel giorno, tristemente, i morti richiamavano i morti.

Intanto dal balcone: “…La guerra è vinta… I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza..”.

Letto “Il bollettino della vittoria” vedemmo il Sindaco scendere nella piazza, mettersi alla testa del corteo mentre i combattenti e i reduci rendevano onore alzando le bandiere, poi, in assoluto silenzio, sotto la pioggia che era diventata fastidiosa, ci incamminammo tutti verso la chiesa parrocchiale là dove si sarebbe celebrata la messa in suffragio dei caduti.

Da tempo mi chiedo, senza trovare risposta, perché continuo a perpetuare il rito di scovare, durante i miei viaggi, anche nel più piccolo e sperduto paese, il monumento ai caduti e ancor più mi chiedo perché, una volta trovato, leggo e faccio la conta dei morti di quella guerra.

I due ricordi che sono riaffiorati sono di sicuro una prima risposta; la seconda arriva dall’inconscio: la mia mente razionale ancora rifiuta l’idea che intere generazioni di quegli anni siano state falcidiate, usate come materiale da cannone, vilipese da tronfi generali.

I conti però, davanti alle lapidi tornano: Bianchi Giuseppe, Bianchi Francesco, Bianchi Stefano, Bianchi Pietro etc… a testimoniare che persero la vita insieme padri, figli, cugini, zii, frantumando famiglie, comunità, tessuti sociali e la conferma, la prova del nove, degli oltre 650.000 caduti del conflitto la si ha visitando il Sacrario di Redipuglia dove, sotto quella sola marmorea, interminabile scalinata riposano 100.187 soldati: 39.857 noti, 60.330 ignoti; il nome di quest’ultimi, scolpito in grandi caratteri sui marmi delle gradinate è: “PRESENTE”.

Si trova lì di sicuro il giovane soldato di cui mi ha parlato mio padre.

I Generali!
Ho rivisto ultimamente “Orizzonti di gloria” film di Stanley Kubrik del 1957; il fronte è quello francese ed è emblematica la figura del generale che non si capacita del perché sia stato messo sotto inchiesta per aver dato ordine ai suoi uomini di mitragliare altri suoi uomini che disobbedivano all’ordine di avanzare per un assalto assolutamente suicida.
Il Generale, poveruomo, il senso del termine è assolutamente dispregiativo, era convinto, con i suoi insensati ordini, di combattere e difendere valori nobili e assoluti quali coraggio, sacrificio; cocciutamente impegnato a conservare quello, per lui irrinunciabile, di una cieca e assoluta obbedienza dei soldati.
Quanto erano lontani i Comandi dai milioni di fanti eroici, assiepati nelle trincee, infangati, mal nutriti, ammalati, angosciati da una morte che era seduta lì accanto a loro, taciturna compagna quotidiana, quanta disparità fra le classi sociali, quanta lontananza, quanto disdegno verso gli ultimi considerati “materiale umano”, a volte “scarti” anche in tempo di pace!

La mia generazione, sino ad ora, ha solo sentito parlare della guerra, ma oggi, drammaticamente la guerra bussa di nuovo alle porte della Ucraina, dell’Europa, ma quanti conflitti ancor oggi nel mondo, quanti eccidi e spesso si fatica a capirne le cause, sfuggono i nebbiosi contorni, facendosi strada invece la convinzione che molti contenziosi sarebbero facilmente risolti con la diplomazia evitando così il ricorso alle sanguinose armi.
Chi e perché decide di far parlare le armi?
Risulta sempre utile, in questi casi, formulare la domanda: a chi giova?
Mi permetto di rispondere vantando una sola certezza: Non giova di sicuro a chi di nome fa: PRESENTE!”.

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