Cronaca

Orchestra di Mantova e pianista Say, applausi al Ponchielli

– Foto Francesco Sessa

Cresciuto come violoncello nelle fila della Mahler Chamber Orchestra, alla luminosa scuola di Claudio Abbado, Philipp von Steinaecker ha nel suo karma il nome di Bach, Leitmotiv di una ricerca che come una spirale si muove e approda ogni volta all’antico, all’originale, al “filologico”. Quando sul podio tesse in trama i singoli fili lo fa con quel gusto per il cesello di ogni singola tessera, sorvegliandone le entrate e i volumi, quasi si trattasse di voci e non di strumenti. Una leggerezza che non va mai a braccetto con la superficialità ma che è, al contrario, recupero della musica come aristocratico, esclusivo piacere di un racconto fatto per essere assaporato nel suo narrativo fluire. Sotto le sue mani, lo scorso sabato 14 aprile in un Teatro Ponchielli gremito, l’Orchestra da Camera di Mantova capeggiata da Carlo Fabiano appariva tirata a lucido, valorizzata come nei giorni di festa: magnifici i legni, ricettivi traduttori degli spunti lanciati dal direttore, autorevoli le percussioni, avvolgenti gli archi “maggiori”, violoncelli e contrabbassi. Come già avvenuto la sera prima nel mantovano teatro Sociale, l’effetto di questo fecondo connubio restituiva dapprima un Haydn vitalistico, mercuriale nella ricca trascolorazione delle nuances, autenticamente giocato nel palpabile divertissement di incastri solo in apparenza estemporanei e in realtà frutto di una sedimentata complicità fatta di prove e di serrata riflessione sulla partitura. Sul leggio era la Sinfonia in Do maggiore op. 48 che il compositore di Rohrau dedica all’Imperatrice d’Austria Maria Teresa e che, oltre al nome, della sovrana conserva la radiosa solennità. In filigrana, la lettura trasparente dell’OCM lasciava intravvedere le segrete ascendenze del testo: da un lato – nel primo movimento soprattutto – lo spolvero di sapore quasi mozartiano, l’elettrica vivacità, l’esuberanza a fatica convertita in maniera; dall’altro, nelle accentazioni marcate del Minuetto, l’ombra presaga dell’humor che si ritroverà, irresistibile, nel primo Beethoven. Un biglietto da visita, questo haydniano, che ha aperto le oltre due ore di concerto e che, specularmente, guardava all’altro capo del filo, al Mendelssohn “shakespeariano” dell’Ouverture op. 26, in una natura tutta mormorii e brulicanti presenze fatate, e soprattutto allo Schubert più macerato, quello dell’Ottava Sinfonia “Incompiuta”. Due soli movimenti affacciati sul baratro dell’incompiutezza, due monadi in cui l’anima buona e disperata del cigno schubertiano appare come raggrumata di ogni sua sfaccettatura. Qui era il clarinetto di Alijaz Begus a danzare, bravissimo, sul canto che si alza dallo spaurito fondale degli archi e che andrà a morire nell’affettuoso, carezzevole secondo tema con i violoncelli protagonisti, e da qui nel silenzio di una pausa che tutto spegne, già annunciando l’arrivo dell’accordo ferale che come lama impietosa gela ogni anelito. La nitida visione di direttore e compagine orchestrale, l’onestà mai stucchevole del loro approccio alla musica (magnifico il passo del secondo movimento!) trovava, incastonato nel programma e attesissimo dal pubblico, il suo esatto opposto nel pianismo di Fazil Say, acclamato interprete che nell’agguerrito panorama concertistico pare essere riuscito a ritagliarsi una nicchia dorata attraverso un’irresistibile armatura di classicismo rovesciato, come calzino, in trasgressione, in spettacolarità, in una parola, in puro show. Così l’acquario di suggestione, di poesia, di canto che è il Concerto in sol di Ravel – senza bisogno di scomodare i marmorei busti dei riferimenti sommi, da Michelangeli a François fino alla tracimante Argerich – finiva per essere qualcos’altro, un mondo finto visto alla moviola di frasi così slentate da perdere il loro naturale eloquio, una compiaciuta sequenza di fotogrammi spesso incapaci di inanellarsi tra di loro a formare una frase. La spuria trasparenza tecnica dell’esecutore, ecco la genialità!, la sua risicata palette timbrica – corta priva di morbidezza nelle sonorità più piene – anziché rappresentare degli oggettivi limiti cambiavano d’abito e diventavano occasioni per vedere, in questa scrittura così cangiante, una monocorde anima dai vaghi contorni jazz, affogata in accenti ridanciani e in un’eccentricità artificiosa quando, il più delle volte, sopra le righe. Applausi entusiasti del pubblico, con palchetti e galleria in standing ovation. E Say, furbacchione, rispondeva con due sue creature, esercizi di stile manierati e accattivanti, perfettamente equidistanti da quella sovrana classicità che pulsa sotto le iridescenti, screziate armonie raveliane così come da quella sospesa, millimetrica raffinatezza che appartiene all’autentico swing.

Elide Bergamaschi

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