Cronaca

L'armatura di suoni di Taglietti sul racconto di Benati Esordio del 'Violinista sul tetto'

Sospeso, danzante, chagalliano quanto basta per lasciarne intendere il lirismo dell’anima, il violinista guarda lo spettatore, accennando un incipit musicale. Non poteva avere miglior portabandiera di questo ingenuo poeta del suoni scelto come logo sulla brochure, la rassegna appunto intitolata “Il Violinista sul Tetto”, appassionante dedalo di linguaggi e di comparse tra arte, musica, cinema e letteratura che, in chiara controtendenza con l’attuale diffusa aridità di tasche e di idee, il Comune di Cremona ha organizzato in collaborazione con Cremonabooks e Lo Studiolo di Graziella Camurri.
Il battesimo di questa seconda annata, i cui eventi spazieranno a larga trama fino al prossimo 25 novembre, è stato lo scorso 25 marzo, nel cuore del Museo Civico Ala Ponzone, di fronte ad una platea che affollava la magnifica Sala San Domenico, incurante dei postumi da ora legale appena scattata. E in felice concomitanza con la festa del FAI, le tele di quell’aurea, purtroppo estinta, Padania felix che scandiscono il passo delle pareti parevano idealmente contrappuntare la musica e parola, quasi a richiamare lo spettatore ad un esercizio di quotidiana educazione alla bellezza.
Primo di quattro raffinate proposte domenicali – un’ora di ascolto prima di pranzo, nobile alternativa al più comune aperitivo – era l’iracondo spirito di “Cagnolati”, creatura anch’essa, come il violinista, sospesa tra comicità e suspense, intinta dalla prima all’ultima nota di un’ingenua comicità, nata racconto dalla penna di Daniele Benati e divenuta musica “parlante” attraverso lo straordinario filtro musicale di Gabrio Taglietti. Sulla figura dello strampalato personaggio, il compositore cremonese ha infatti saputo ordire un’autentica armatura di suoni. Melodie, vicende musicali, certo, ma non solo. Più che frasi spianate, a delineare per sottrazione il plot – evocandone pagine tratte dal testo, che la voce di Dario Cantarelli restituiva guizzanti e immaginifiche – erano piuttosto frammenti, schegge, motivetti naif ossessivamente reiterati e mescolati ai rumori del mondo, canti affiorati alla memoria da chissà quale sepolto baule interiore, improvvisi sussulti con cui la tensione accumulata ora si dissolveva ora pareva autenticamente scoppiare.
La trama è insieme semplice e inafferrabile: una voce narrante che giunge dalla lontana America; un uomo che ad un tratto, nella folla, scorge l’esagitato Cagnolati, sua antica conoscenza a tutti nota per la sanguigna e pericolosa personalità. Nel frattempo, il misterioso protagonista si ritrova a “lavorare” partecipando a nome del console italiano a feste mondane durante le quali accadono fatti inspiegabili, fino al concitato irrompere sulla scena del temuto Cagnolati con tanto di sparatoria finale. Una ragnatela di piccole storie concentriche senza (apparente) morale, che la musica, nelle baldanzose fanfare così come nelle sognanti note sovracute della voce, sirena quest’ultima del ricordo e dei riposti sentimenti, pareva avvolgere fino al cuore delle più sottili sfumature.
La cifra di Taglietti finiva per torreggiare con statura inversamente proporzionale all’ingerenza sul testo: la discrezione minimale dei suoi interventi, disposti ora come rutilante tappeto sonoro per visioni e suggestioni e ora come solitaria lente sull’anima dei personaggi, finiva per essere il nobile sismografo della storia, la traduzione fedele e personalissima del suo clima emotivo. Una sintassi, la sua, che occorre gustare dalla giusta distanza, da quell’angolazione prospettica che consente di radunare insieme i tasselli del mosaico apparentemente raminghi e invece disseminati con chirurgico calcolo all’equilibrio del tutto. Solo così si apprezza appieno l’organicità dell’elaborazione, la lucida, sorvegliata conduzione delle parti, la magnetica forza che abbraccia i mille rivoli in un solo argine dove tutto alla fine pare ritornare e confluire. Il picaresco viaggio atlantico di Cagnolati, e con esso la simmetrica ansia di evitarlo da parte del protagonista, trovava rispondenza nel grandioso clarinetto di Roberta Gottardi, con i polmoni sontuoso aedo di questo dramma imbrigliato nell’armatura di una caustica ironia e con i piedi (sì, proprio i piedi!), custode del tempo e del battito cardiaco, di cronos e pathos, attraverso il tacabanda portato a spalle che il movimento delle sue gambe eccitava con instancabile urgenza. E la voce, anch’essa puntualissima negli interventi di coloratura, a freddo, tra picchettati e intervalli imprendibili a mimare il canto degli uccelli, i suoni della natura e le loro amplificazioni nutrite dal ricordo e dalla nostalgia, era quella di Sonia Visentin. Alla parte elettronica, un po’ mangiafuoco un po’ discreto regista che nell’aria disegna chimere, lo stesso Taglietti, applauditissimo insieme ai suoi valorosi compagni di viaggio. Una mattinata di sole sulla città di Cremona e sul suo più riposto ruolo di secolare sentinella della musica, sia essa da salvare o da inventare.

 

Elide Bergamaschi

 

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