Cronaca

Covid, a Pneumologia da 22 a 7 casi. Calano i ricoveri, ma la speranza sono i monoclonali

Fino alla fine di gennaio erano 22 i posti letto occupati da pazienti Covid in Pneumologia, uno dei reparti ospedalieri che nella prima ondata hanno dovuto stravolgere la propria attività ordinaria. Oggi si può dire che siano superati gli esiti delle infezioni esplose lo scorso autunno nella seconda ondata, meno impattante di quella drammatica di marzo – aprile. 7 i ricoverati Covid attuali, di cui tre intubati e gli altri trattati con terapie non invasive; 16 i ricoverati non Covid, collocati nella parte cosiddetta ‘pulita’ del reparto, completamente isolata dall’altra. “Siamo un reparto di subintensiva”, ci spiega il dottor Matteo Maestrelli col quale abbiamo fatto il punto della situazione. Uno dei sette medici di questo reparto che ha visto giorni peggiori, ma dove non ci si può permettere di tirare il fato.

 “Le altre patologie sono quelle che purtroppo hanno subito il contraccolpo nella prima ondata, pazienti che prima non abbiamo potuto vedere.  Grazie al lavoro della mia responsabile, Monia Betti (facente funzione dopo il pensionamento di Giancarlo Bosio, ndr) siamo riusciti a mantenere la parte ‘pulita’ e a tenere aperti gli ambulatori per tutte le patologie non Covid. Ad esempio studio del sonno, dell’asma grave, interstiziopatie, tutte le sottospecialità della pneumologia. Oltre all’ambulatorio del venerdì, dedicato ai pazienti Covid della prima e della seconda ondata: rivediamo i pazienti che sono stati sottoposti alla ventilazione invasiva o non invasiva”.

“Non c’è nulla che possa essere paragonabile alla prima ondata, quando tutto l’ospedale era Covid, oppure alla seconda, quando noi avevamo 22 letti occupati e in più erano stati attrezzati la week surgery e gli Infettivi.  Ma è una situazione in divenire, molto dipenderà dal buon senso delle persone e se circolano varianti come quella inglese che è più contagiosa. Questo può far cambiare la storia. Ma va anche detto che la nostra zona è stata molto colpita nella prima ondata e un minimo di memoria immunologica è rimasta, oltre alla memoria storica”.

LE TERAPIE. GRANDE ATTESA PER  IL FARMACO MONOCLONALE –  “Non esiste una cura specifica per il Covid. Sono autorizzati trials clinici con un farmaco antivirale solo nelle forme lievi (quelle trattate con ossigenoterapia, senza ventilazione meccanica, con il Remdesivir). Ma gli studi hanno dimostrato che non ci sono stati i risultati che tanto auspicavamo”, afferma Maestrelli.

“Usiamo anche il Desatemasone, che va ad agire sulla fase infiammatoria ed è l’unico farmaco che ha dimostrato, soprattutto nei pazienti gravi, di ridurre la mortalità”.

La nuova prospettiva è quella dell’utilizzo dei farmaci monoclonali. “L’Aifa – spiega il medico – ha recepito due giorni fa la richiesta dello Spallanzani di autorizzarlo nell’ambito dei trials clinici protetti. E’ un fatto storico: viene sottolineata la gravità della situazione, non era mai successo che Aifa autorizzasse un farmaco senza prima l’autorizzazione di Ema, e i trials clinici sono in divenire.

Le ditte che lo stanno producendo sono due: l’americana Regeneron, quella del farmaco utilizzato da Trump e la Eli Lilly, pure americana, con stabilimento a Latina e sede in Toscana. I dati che abbiamo della Lilly mostrano che riduce la possibilità di andare incontro alla forma grave nel 72% dei casi, una cosa enorme. Fondamentale però è inquadrare il paziente.

Sono farmaci costosi e bisognerà trovare il paziente con determinate caratteristiche, prima fra tutte con inizio sintomi che vanno dalle 72 ore a massimo 10 giorni. Gli anticorpi monoclonali infatti vanno a colpire il virus impedendogli di attaccare la cellula e di replicarsi”.

Come funziona il farmaco monoclonale? “Si parte dal plasma iperimmune, quello dei pazienti guariti e si selezionano gli anticorpi neutralizzanti, quelli più promettenti, da iniettare nel paziente. Si tratta di una terapia genica che è alla base di quella che già viene usata in oncologia (farmaci mirati sui pazienti) e in reumatologia.

“Questi farmaci sono efficaci e andrebbero somministrati nei pazienti che rischiano di andare incontro a patologie gravi, anche perchè sono molto costosi. Si parla di 1000 – 1500 euro per somministrazione; ma se si pensa che 1000 euro è il costo di un giorno di degenza in ospedale e 5000 quello di un giorno in terapia intensiva, si capisce che anche solo da un punto di vista economico conviene: infatti costa molto di più curare un paziente che sta qui 6 – 7 giorni in ospedale con l’ossigeno.

“Poi ci è stato anche proposto – in maniera ancor più sperimentale – di poterlo utilizzare in attesa che possa esserci una vaccinazione di massa nei pazienti più delicati (ad esempio gli ospiti delle Rsa), per dare un’immunità transitoria in attesa che il paziente venga vaccinato. Ma ci si augura che, adesso che c’è il vaccino, gli anticorpi vengano utilizzati sempre più come terapia e non come profilassi”.

Difficile però dire quando questi farmaci saranno disponibili anche a Cremona: “Abbiamo la fortuna di avere un ottimo rapporto con il farmacista dottor Machiavelli e il dottor Pan degli Infettivi, per cui quando ci sarà la possibilità concreta di condividere questi studi, mi auguro che potremo averne subito la disponibilità”.

Sempre di minore importanza, invece, l’utilizzo del plasma iperimmune: “Non ha dato i risultati sperati: gli studi condotti finora mostrano che la curva della mortalità tra pazienti trattati e non trattati è sovrapponibile, e si regista solo una lievissima riduzione del tempo della degenza. Ci sono inoltre alcuni effetti collaterali, anche se rari, perchè si tratta sempre di una trasfusione.

“Molto probabilmente con l’arrivo del farmaco monoclonale il plasma iperimmune andrà a perdere il suo significato. Si vedrà se utilizzarlo ad esempio nelle fasi iniziali della malattia. Ma la grossa differenza – aggiunge il medico – è che quando dò un farmaco monoclonale so che andrà ad agire sulla proteina spike, quella che viene creata anche dal vaccino e so perfettamente cosa vado a fare. Con il plasma iperimmune il risultato cambia di molto a seconda delle concentrazioni anticorpali del plasma, che non sono sempre uguali e poi cambia molto anche la risposta soggettiva”.

Giuliana Biagi

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