Cronaca

Bimbo nato morto, ginecologa a processo. In aula la mamma piange. 'Nessuno mi ascoltava'

Jessica Peluso (a sinistra) con l'avvocato Stefania Bravi
L’avvocato Munafò

Si è aperto oggi con la sofferta testimonianza della mamma Jessica Peluso, il processo nei confronti di Mariangela Rampino, ginecologa dell’ospedale Maggiore accusata di omicidio colposo. Per l’accusa, il 28 giugno del 2017, la dottoressa, medico di guardia presso il reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale di Cremona, avrebbe omesso di visitare Jessica, 37enne cremonese alla quarantesima settimana di gravidanza, arrivata in reparto lamentando malesseri e producendo analisi delle urine dalle quali risultava una lieve proteinuria. Il medico avrebbe omesso totalmente la valutazione dei dati clinici e il necessario approfondimento diagnostico, causando la morte intrauterina del feto, verificatasi tra il 6 e il 7 luglio successivo a causa di asfissia acuta da distacco intempestivo della placenta. La paziente, già mamma di tre bambini, aveva scoperto che il suo piccolo Manuel era morto il 9 luglio, quando si era presentata in ospedale per il parto programmato. La 37enne è parte civile attraverso l’avvocato Stefania Bravi, del foro di Piacenza, mentre l’imputata è assistita dall’avvocato Diego Munafò, del foro di Milano.

“I primi di giugno del 2017 sono andata in ospedale perchè avevo una forte tosse”, ha raccontato Jessica al pm Ilaria Prette. “Non respiravo bene e avevo le gambe ingrossate. Sono stata visitata al pronto soccorso e il medico mi ha dato un piccolo dosaggio di antibiotico. Poi sono tornata a casa. Ma non stavo bene. Il 22 giugno ho chiamato mia cognata, pregandola di accompagnarmi in ospedale. Al pronto soccorso c’era lo stesso medico che mi aveva già visitata ai primi di giugno. La tosse non mi era passata e non avevo sensibilità alle gambe. Sono stata mandata al settimo piano dove mi è stata fatta una visita ginecologica”. A Jessica era stata riscontrata una proteinuria alta. Il giorno dopo aveva fatto l’esame dell’urinocoltura, il cui esito sarebbe stato pronto il 28 giugno. Il 27 giugno, però, Jessica, che stava ancora male, aveva chiamato il suo medico di base che era riuscito a controllare i risultati per via telematica. “Il medico mi aveva detto di recarmi al pronto soccorso perchè avevo la proteinuria abbastanza alta”, ha spiegato la 37enne. Il 28 di giugno Jessica era sicura che avrebbe partorito, tanto che era entrata in ospedale con la valigia. Ad accompagnarla erano state sua sorella e sua cognata. Mentre la sorella parcheggiava, Jessica e la cognata si erano presentate direttamente in reparto senza passare dal pronto soccorso. “Ho aspettato un pò e poi è uscita un’ostetrica”, ha raccontato Jessica, “una donna sui 50 anni, un pò robusta, con i capelli grigi. A lei ho consegnato la cartelletta con gli esami, compresi quelli dell’urinocoltura che ero andata a ritirare. Lei mi ha detto che li avrebbe fatti vedere alla ginecologa. Quando è tornata, ha detto che tutto era a posto e che sarei dovuta tornare il 9 luglio per il monitoraggio. Siccome non stavo bene, mi ha misurato la pressione, ed era bassissima. L’ho pregata di farmi partorire, avevo le gambe gonfie, non riuscivo più a camminare, tanto che in reparto ero entrata in carrozzina, ma lei mi ha detto che dovevo solo stare a riposo e al fresco”. In aula, Jessica ha pianto. “Nessuno mi ascoltava, non respiravo più e avevo le gambe sempre più gonfie”. Il 7 luglio la donna aveva cominciato a non sentire più i movimenti del bambino. Il 9 luglio in ospedale era stata sottoposta a monitoraggio. “Non sentivano più il battito, ho avuto una crisi”. Poi era entrata in sala parto. “Il bimbo era bello, sano, cicciotto. Mi hanno detto che l’avrebbero lavato e me l’avrebbero portato, e invece non l’ho più visto”.

In aula sono state sentite anche la sorella e la cognata di Jessica. “”Era gonfia e non riusciva a parlare e a camminare”, ha ricordato Veronica, la sorella. “Quel 28 di giugno, quando abbiamo portato mia sorella in ospedale, siamo andate direttamente in reparto. Era stato il medico di base di Jessica a dirglielo”. “Abbiamo detto all’ostetrica che stava male”, ha riferito a sua volta Monica, la cognata, “ma lei ha risposto che doveva andare a casa, stare a riposo e mettersi al fresco”.

“Ogni malato deve accedere al pronto soccorso”, ha spiegato al giudice il primario del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale di Cremona, Aldo Riccardi. “E’ altamente improbabile che una paziente si presenti direttamente in reparto. E se succede e questa paziente non ha un rischio immediato, deve andare al pronto soccorso”. Alla domanda se il dato della proteinuria potesse costituire un’urgenza, il primario ha risposto di no: “Alla luce di quegli esami”, ha spiegato, “quello che è successo è stato un evento altamente imprevedibile”.

A processo è stata chiamata a testimoniare anche Sivia Bussini, 56 anni, 35 anni di lavoro alle spalle come ostetrica, di cui 33 ospedalieri. Prima della sua deposizione, però, è sorto un giallo: in aula si è scoperto che inizialmente la Bussini risultava indagata. Notizia di cui la testimone, con grande sorpresa e disappunto, è venuta a conoscenza solo oggi a distanza di due anni. Nelle carte risultava solo una richiesta di archiviazione, perciò l’udienza è stata interrotta per dar modo al pm di accertare l’attuale posizione giudiziaria della Bussini, che se fosse risultata ancora indagata, avrebbe dovuto essere sentita con l’assistenza di un legale. Invece non è stato necessario in quanto è stato poi accertato che la sua posizione era stata definitivamente archiviata.

“Mi ricordo di Jessica”, ha detto la Bussini all’inizio della sua testimonianza. “Aveva già avuto delle gravidanze. Quel 28 di giugno è stato un giorno molto trafficato. Ero di servizio e me la sono trovata davanti in sedia a rotelle. Le ho chiesto cosa fosse successo e lei mi ha dato in mano i suoi esami. Io le ho chiesto se era stata al pronto soccorso, ma lei ha scosso la testa. A quel punto ho deciso di prendere i suoi esami e di farli vedere alla ginecologa di guardia. La dottoressa, però, era occupata, e quindi ho lasciato le carte nel suo ufficio per raggiungere le altre pazienti che avevo sotto monitoraggio. Poi sono tornata e alla dottoressa ho spiegato che Jessica non era stata in pronto soccorso. Abbiamo guardato insieme gli esami e non c’era nulla di preoccupante. Quando sono tornata da lei le ho detto di stare tranquilla, di andare a casa e di stare al fresco, perchè faceva molto caldo, tanto che l’ho fatta accomodare dove ci sono le mamme in monitoraggio e dove si stava meglio. Le ho anche provato la pressione: era 100 su 60, bassa ma giusta, dopodichè l’ho accompagnata fuori”. La Bussini ha spiegato che era già capitato che qualcuno salisse direttamente in reparto senza passare dal pronto soccorso, ma dopo questa vicenda non è più successo. “Jessica era sudata ed era in avanzato stato di gravidanza, le gambe erano lievemente gonfie, faceva caldo, ma non mi è sembrata prostrata”, ha ricordato la testimone, “non c’era una condizione di urgenza. L’ho mandata a casa dicendole di tornare il 9 luglio, e di andare al pronto soccorso nel caso non si fosse sentita ancora bene. Quando poi ho saputo cosa era successo, sono rimasta destabilizzata”.

Secondo la difesa, rappresentata dall’avvocato Diego Munafò, il 28 giugno, quando la paziente si era presentata in reparto, non esistevano i presupposti per un ricovero. “La signora non aveva né perdite, né dolori e il bimbo, secondo quanto riportato dall’anatomopatologo, è deceduto tra il 6 e il 7 luglio”. “La mia cliente”, aveva già sostenuto in udienza preliminare l’avvocato Munafò, “non si ricorda di aver visto quegli esami, tanto che non li ha firmati. E comunque anche se li avesse visti non c’erano segnali per un ricovero”. “Dell’accesso in ospedale della paziente”, ha ribadito il legale, “non c’è nemmeno traccia documentale, non essendo passata dal pronto soccorso. L’unica con cui ha parlato è stata l’ostetrica”.

I consulenti, i testimoni di parte civile e l’imputata saranno sentiti nell’udienza del prossimo 10 gennaio.

Sara Pizzorni

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