Cultura

Cascina Farisengo, la casa-museo dove si svela la musica delle cose

di Vittorio Dotti

«Le “cose” hanno un loro silenzio e una loro musica. Può trattarsi di un oggetto, uno strumento musicale o di un’opera d’arte, ma è sempre una “cosa”. Non nel senso che è indeterminato, ma nel senso che fa parte di quegli oggetti, quelle forme che l’uomo ha inventato e creato, ma che sono silenti e così rimangono fino a che non gli venga dato modo di vibrare, muoversi, liberare così il motivo della loro esistenza. (…) Fino a quando una “cosa” rimane silente, conferma il suo stato di cosa, ma non appena la si usa per la funzione per la quale è stata creata, diventa voce, diventa parte di colui o coloro che la stanno usando. Perde il suo silenzio, esprime il suo essere, produce un rumore o un suono [che la rendono strumento vivente nell’ordito sinfonico della realtà]».

Sin qui il musicista-filosofo Mario Brunello, nel suo libro “Silenzio” (Il Mulino, 2014), al quale sembra essersi ispirato idealmente l’Ingegner Silvio Baronchelli, quando decise di ristrutturare – con rigore filologico, competenze dotte d’Architetto ed estroso intuito artistico – l’avita Cascina ubicata all’interno del Parco della Golena del Po, in località Farisengo, punto di irradiamento dell’antico argine maestro etrusco: un luogo che racchiude energie ancestrali e magiche, ove l’incanto suadente della Natura trionfa sui relitti guerreschi della Morte. Farisengo fu infatti teatro della tragica battaglia del 14 aprile del 69 d.C. fra le legioni italiche di Marco Salvio Otone e quelle gallo-germaniche di Aulo Vitelio, in cui i due generali si contesero la successione imperiale a Nerone, battaglia che ebbe come esito «una catasta di corpi che sfiora in altezza i frontoni del tetto» – narra lo storico Plutarco.

In memoria di questo avvenimento luttuoso è stato eretto un tempio, ma è tutto l’armonioso fraseggio di pietra, ferro, legno… con cui è stata riattata la Cascina, nonché il cromatismo, i profumi, i pacati rumori del Giardino romantico, con un “viridarium” (orto botanico) e un laghetto alimentato da acque sorgive – è tutto questo, non la santella mariana e il tempietto soltanto, a tradurre il ricordo dell’inferno della morte in un inno alla serenità e alla vita, che chiunque avverte giungendo da Cremona nella piccola frazione del Comune di Bonemerse denominata Farisengo: toponimo di origine longobarda, strutturato con le radici fara (clan), engo (< arengum, accampamento), is (letteralmente ‘ferro’ e, per estensione, guerriero); dunque, sinotticamente, “accampamento di una tribù guerriera”.

Farisengo offre un esempio mirabile di cascina lombarda a corte chiusa e a pianta quadrata; una fattoria di ragguardevoli dimensioni, in considerazione del fatto che ivi risiedevano, in tempi ormai remoti, 165 abitanti, divisi in 13 famiglie. La Casa padronale, di impianto quattrocentesco, con la più antica corte chiusa che si estende a sinistra, il pregevole “bocchirale”, la loggia con soffittatura lignea del piano superiore; il Giardino romantico, verzicante di essenze arboree e occhieggiante di fiori, con una Limonaia, una Casa dei pescatori, una Ghiacciaia e una Casetta svizzera sono l’aspetto emergente della “musica delle cose”, da cui resta infatuato qualsiasi visitatore di questo locus mirabilis.

«Rimane però una parte, un lato misterioso: è la sua storia, il suo passato. (…) Le “cose” ci insegnano a cercare e ad ascoltare il silenzio attraverso l’atto della considerazione. Predisporsi a considerare induce prima a rallentare e poi a fermare i pensieri, per poi prendere in considerazione il silenzio della “cosa”, e poter intuire e percepire la sua musica, il senso del perché esiste».

Ancora il musicista Brunello, e ancora, in sintonia elettiva, l’intuizione vincente dell’Ingegner Silvio: istituire in alcuni locali della sua meravigliosa Cascina un… Carabattolaio della civiltà contadina. Sicuramente c’è un impianto scientifico alla base dell’organizzazione delle sale (la casa contadina d’un tempo, la cucina, la bachicoltura, il lavoro nei campi); nella scelta accurata degli oggetti esposti (fra i quali va segnalata una rara incubatrice per i bachi da seta); nel recupero delle macchine agricole (una locomobile della ditta Breda, una sfoglia-sgranatrice e altre non comuni macchine); nel restauro filologico delle venticinque carrozze risalenti al XIX secolo, realizzate dai migliori costruttori italiani dell’epoca (Fontana, Pavesi, Sala). C’è un rigore che richiama al pensiero le considerazioni sulla cultura materiale e sul simbolismo della quotidianità espresse da Emmanuel Anati ne “Le radici della cultura” (Jaca Book, 1992); si intravedono in filigrana gli stimoli intellettuali seminati da Vittorio Dini in “Tolleranza e libertà.

Studi per la ricostruzione di un’antropologia” (Eleuthera, 2001), stimoli coi quali il compianto studioso ci induce a riflettere sul valore affettivo ed evocativo degli oggetti. Ma il rigore scientifico, qui a Farisengo, viene trasceso da un desiderio di riappropriazione ‘romantica’ del passato, venendo così a comporre nei vasti spazi espositivi non una raccolta statica, ossificata di oggetti, bensì una collezione vivente di “carabattole”: oggetto di poco conto, masserizia ingombrante e di nessun valore – ci sovviene per il significato il Grande Dizionario della Letteratura Italiana, UTET. Oggetti ingombrati rispetto alla dinamica funzionalistica del nostro way of life votato allo spreco; oggetti di nessun valore economico, queste carabattole, ma “cose”, nel significato pregnante inteso da Brunello e perseguito dall’Ingegner Baronchelli, capaci di generare in chi le osserva, le tocca, le annusa, le… ascolta emozioni di un tempo lontano, forse neppure personalmente vissuto, ma vivo nella memoria culturale, nella tradizione orale, nella suggestione evocativa di alcuni luoghi privilegiati e di rari medium umani – condizioni tutte verificabili nel sacrario pagano del Carabattolaio farisenghese. Dove la musica, cristallizzata nell’architettura, vive di ombre e rifrazioni, si anima dei colori e dei profumi del giardino, rifulge nell’intelligenza affabulatrice del vulcanico Silvio. Ma ciò che stimola nel profondo l’opera architettonica, botanica, museale, storico-culturale di Cascina Farisengo, a me pare risieda nel sorriso mite e armonioso di colei che tutta questa realizzazione ha ispirato: la signora Elisa, compagna e Musa incantevole dell’estroso Ingegnere. Il quale scrisse per lei – tanti anni or sono, ma il senso vive ancora – questo bellissimo acrostico:

E ti conobbi
Là dove tu sai
Incisa nel sorriso di un passato
Sapore antico
Amor che mi dà vita l’aver amato

Foto Dotti

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