Cronaca

Giorgio Bocca e il racconto del linciaggio di Ca’ de’ Quinzani

«Tutti quelli che fanno il giornalismo lo fanno sperando di dire la verità: anche se è difficile, li esorto e li incoraggio a continuare su questa strada». Un testamento ideale quello che Giorgio Bocca, firma storica del giornalismo italiano, scomparso il giorno di Natale  all’età di 91 anni, affidò alle nuove generazioni nell’aprile 2008, ricevendo nella stessa casa di Milano dove  si è spento dopo una breve malattia, il premio Ilaria Alpi alla carriera. Un testamento anche il titolo del libro che uscirà l’11 gennaio per Feltrinelli, «Grazie no. 7 idee che non dobbiamo più accettare». Con Giorgio Bocca se ne va un grande cronista del Novecento, un grande maestro di giornalismo come lo furono Enzo Biagi o Indro Montanelli. Bocca è stato tante volte dalle nostre parti a raccontare la campagna con i suoi pregi e i suoi difetti. Ricordiamo gli splendidi servizi sul Po, sul sogno del canale navigabile, sulle trasformazioni delle cascine.  Da cronista ha lasciato pagine memorabili anche sui fatti accaduti nella provincia cremonese. Ne proponiamo uno, tragico, relativo al linciaggio del povero Renzo Bottoli avvenuto all’inizio del 1960 a Ca’ de’ Quinzani lungo la via Mantova.

 

 

Un linciaggio mi fa arrivare a Ca’ dei Quinzani, dodici chilometri da Cremona. Si prende la provinciale per Mantova, poi a destra in mezzo ai campi con l’acqua verde dei fossi a pelo della strada, gelsi e ceppaie sulle sponde, i buoi a coppie che tirano i carri perchè “Fiat o mica Fiat, i trattori nella fanga sprofondano”. I carabinieri di Cremona sono stati avvisati poche ore fa: c’è stato un incidente, un incidente chiamato linciaggio. Si era accorto del morto un bergamino, un certo Denti, uno di quelli che scendono dalla montagna bergamasca per mungere le  mucche. Passando all’alba del lunedì per l’unica strada della borgata aveva quasi urtato in una roba nera, carne e stracci, raggomitolata contro un muro. “Ehi, socio, ndemm. ndemm che fa frecc. Alzati, a va a dormire”. Ma Renzo Bottoli, lo scemo, il girovago era morto, ucciso a pugni e a calci “perchè aveva fatto i versi alla Pompea”, la figlia dell’idraulico, quella che studia a Cremona.

Il Renzo era arrivato a Ca’ dei Quinzani che annottava, la sera della domenica, già mezzo ubriaco. Infila l’unica strada, si ferma davanti a una finestra illuminata e bussa ai vetri. Tutti lo conoscono, a tutti puoi chiedere, a tutti può chiedere un bicchier di vino e un pezzo di pane. In quella si apre una porticina lì vicino ed esce la Pompea. Renzo è uno scemo ma anche a lui piacciono le ragazze, fa per prenderla per un braccio, perde l’equilibrio, cade sotto la sua bicicletta. La Pompea spaventata corre al bar dell’Enal, racconta del Renzo che le ha fatto paura. “Gli darei una cannellata” dice uno dei giovani, esce seguito dagli altri e vede la sua motoretta rovesciata nel fango. “L’è stà el Renzo” dice qualcuno. Si infuria, raggiunge il Renzo che sta alzandosi traballando e lo tira giù con due pugni. Tutti quelli del bar e anche delle cascine escono a vedere e si passano le voci: “E’ saltato addosso alla Pompea”, “Ha minacciato sua zia”, “Purcaciun, mandelo via”. A calci a pugni a spinte Renzo arriva al bar: inciampa nei gradini, cade sul pavimento. “Mandelo via” gridano. Lo prendono per le braccia e per i piedi e lo sbattono in strada.

E’ da un’ora che lo pestano. Passa un contadino in bicicletta e dice:”Ma lasciatelo stare, è un cristiano anche lui”. “Vattene, se no ce n’è anche per te”. A calci a pugni a spinte Renzo fa trecento metri sulla strada per Malagnino e poi lo lasciano lì per terra mentre invoca aiuto e si fa il segno della croce. Passano alcuni contadini in bicicletta, sentono le sue invocazioni ma non si fermano. “E’ quel porcaccione, quel barbone”. Renzo riesce a mettersi in piedi, vede delle luci e cammina nella loro direzione, non si accorge di tornare a Ca’ dei Quinzani. Cinque dei picchiatori stanno ancora bevendo nell’osteria. Vedono comparire la maschera livida e sanguinante del Renzo e si precipitano in strada a dargli l’ultima passata. “Cosa fate,” dice il Renzo “non vedete che mi uccidete?”.

Il pane non manca a Ca’ dei Quinzani e in tanti altri borghi della campagna che noi vediamo solo dalle autostrade e dai finestrini e dai finestrini di un rapido, ma la vita anche negli anni Sessanta è bestiale e primitiva. Vino e bestie,  vino e letame per tutti i giorni dell’anno. Il pane non manca nelle campagne della bassa, non si fa la fame come nel Meridione ma come uomini, come cristiani meglio non parlarne. Se una vacca partorisce il padrone manda a chiamare due veterinari, ma se gli dicono che una contadina ha le doglie lui che ha il telefono chiude la finestra e torna a letto. Inutile discutere di chi sia la colpa, fra padroni e braccianti c’è ancora un odio che lo tagli con il coltello. Prima con il fascismo tutti zitti e buoni, poi la gente si è divisa fra il parroco e il capolega, lì a disputarsi anime sorde e indifferenti. Si fa la processione del Corpus Domini e tutti dietro, arriva un capo comunista e tutti in piazza, senza credere nè al prete nè al compagno.

E perchè dovrebbero crederci? A dieci, undici anni, legge o non legge, piantano la scuola e incominciano a lavorare; il poco che hanno imparato alle elementari lo dimenticano, nessuno sa parlare l’italiano, metà sono analfabeti. Chi può scappa in città, chi rimane ce l’ha con tutti, con il prete con il capolega con il padrone con la vita. C’è molta violenza nel verde morbido della pianura. A Belforte hanno linciato un guardiacaccia che ha sparato su un camionista, a Spigarolo hanno infierito a coltellate su un ladro. Qui è tutto finito: hanno portato il cadavere di Renzo al cimitero, la Pompea è andata a dormire da una sua zia a Fiorenzuola, nessuno testimonia, i bergamini finito il lavoro passano al bar per bere un bianchino e guardare la televisione.

Giorgio Bocca (da “Il Provinciale,  settant’anni di vita italiana”, ed. Arnoldo Mondadori)

 

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