Cronaca

Il Parlamento può cambiare partito?

La legislatura che si è da poco conclusa, la diciassettesima della storia repubblicana, si è caratterizzata anche per il cambio di schieramento politico di numerosi parlamentari. I giornali hanno parlato di oltre 600 “cambi di casacca” nel corso del quinquennio.
Non so se la cifra indicata risponda al vero. Ricordo, però, che vi sono state scissioni in due grandi partiti, Forza Italia e Partito democratico, mentre si è sgretolata sino a scomparire Scelta civica, la lista che, nel 2013, si era coagulata intorno a Mario Monti.
In vista delle nuove elezioni, per evitare il ripetersi di queste trasmigrazioni da una forza politica all’altra, sono state prospettate soluzioni diverse.
Matteo Salvini ha proposto ai suoi alleati la sottoscrizione, davanti ad un notaio, di un patto di coalizione che impegnasse i contraenti a non stipulare alleanze diverse. Di tale soluzione non si è più parlato e, nel momento in cui scrivo, non sono in grado di dire se effettivamente vi sia stata la firma, davanti ad un notaio, di un patto di coalizione.

Ma se anche la firma vi fosse stata, essa non rappresenterebbe una soluzione in grado di impedire soluzioni politiche in violazione del patto di coalizione. Infatti la violazione del patto non sarebbe sanzionata in alcun modo, se non sul piano politico, come una qualsiasi violazione di impegni politici pubblicamente assunta, violazione che potrebbe essere spiegata all’elettorato in una molteplicità di modi diversi, se non altro come portato necessario di una determinata situazione politica e parlamentare. Né la firma davanti a un notaio potrebbe rendere in alcun modo cogente il patto di coalizione, in quanto il notaio si limiterebbe ad attestare l’identità dei firmatari del patto.

Più interessante, dal punto di vista giuridico e costituzionale, la soluzione proposta (e, per quanto ne so, adottata) dal Movimento 5 Stelle. Un regolamento interno, adottato per la scelta dei candidati, sanzionerebbe il cambio di gruppo parlamentare con il pagamento di una forte somma (mi pare si sia parlato di 200.000 euro).
Ma anche questa soluzione costituirebbe un’ arma spuntata.

Il parlamentare che, in ipotesi, cambiasse gruppo, non pagherebbe certo spontaneamente questa forte somma e nessun giudice potrebbe eventualmente condannarlo al pagamento, giacché la norma del regolamento interno al movimento politico sarebbe in palese contrasto con l’articolo 67 della Costituzione. Tale norma, infatti, prevede che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Come ha scritto uno dei più grandi giuristi del XX secolo, l’austriaco Hans Kelsen, la moderna rappresentanza politica è diversa dalla rappresentanza medievale. La rappresentanza moderna nascerebbe dal superamento dello schema del mandato, secondo cui i rappresentanti dei vari ceti (gli “stati”, come erano definiti in Francia) presentavano al sovrano le richieste dei rappresentati.

Una norma simile all’articolo 67 era già contenuta nello Statuto albertino. L’articolo 41 dello Statuto così prevedeva: “I Deputati rappresentano la Nazione in generale e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori.”
Norme analoghe sono contenute nelle costituzioni del Portogallo, del Belgio e della Grecia.

Sulla stessa linea è anche lo Statuto dei parlamentari europei il quale prevede che i deputati “non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere mandato imperativo” e che “qualsiasi accordo sulle modalità di esercizio del mandato è nullo”.
Norme siffatte hanno l’evidente finalità di garantire l’indipendenza di giudizio del singolo parlamentare che non può essere giuridicamente vincolato da ordini ricevuti da capi politici o di partito, ma è chiamato a rispondere solo alla propria coscienza.
D’altro canto, resta il problema, politico più che giuridico, degli impegni che il parlamentare ha assunto nei confronti del proprio elettorato, nel corso della campagna elettorale. Questa serietà di intenti la si raggiunge solo con uno stretto legame fra il parlamentare ed i suoi elettori, che può essere garantito solo da un sistema elettorale uninominale.

Negli Stati Uniti, dove tale sistema vige dalla fine del Settecento, non esiste sostanzialmente disciplina di partito, ma, nel collegio dove sono stati eletti, senatori e rappresentanti sono chiamati a rispondere davanti ai loro elettori, delle scelte compiute.
Ma in Italia, dove il vigente sistema elettorale, crea un legame assai labile fra eletto ed elettori, con candidature sganciate dal territorio, l’articolo 67 della Costituzione rappresenta un presidio irrinunciabile per evitare che un Parlamento di eletti si trasformi, di fatto, in un Parlamento di nominati.

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