Cronaca

Leucemia non riconosciuta In appello confermata l'assoluzione dei medici

E’ stata confermata in corte d’appello a Brescia la sentenza di assoluzione emessa in primo grado il 9 aprile del 2014 dal tribunale di Cremona per i quattro medici di Casalmaggiore accusati di lesioni personali colpose.

I legali della difesa
I legali della difesa

E’ stata confermata in corte d’appello a Brescia la sentenza di assoluzione emessa in primo grado il 9 aprile del 2014 dal tribunale di Cremona per i quattro medici di Casalmaggiore accusati di lesioni personali colpose per non aver diagnosticato una leucemia acuta a Vincenzo Funaro, 39 anni, napoletano residente a Casalmaggiore.

Dunque, anche in appello non sono state riconosciute responsabilità per il medico di base Luigia Faita, di Casalmaggiore, assistita dagli avvocati Piergiuseppe Storti e Maria Delmiglio, e i medici dell’ospedale Oglio Po Mimo Mantovani, nato a Borgoforte e residente a Bozzolo, difeso dall’avvocato Gian Pietro Gennari, Pierluigi Bettinelli, di Rivarolo Mantovano, assistito dagli avvocati Valeria Bartoli e Agostino Magnani, e Federico Casanova, di Parma, difeso dall’avvocato Mario L’Insalata.
Per gli imputati, così come aveva fatto il pm in primo grado, anche il procuratore generale ha chiesto l’assoluzione.

Per l’accusa, i medici, “in cooperazione colposa tra loro”, avrebbero cagionato al paziente, “affetto da leucemia mieloide, lesioni personali consistite nella protrazione della sua malattia per almeno un ulteriore mese, non diagnosticandola e non adottando terapie idonee”. In particolare la Faita era accusata di aver sottovalutato i sintomi che le erano stati segnalati dal paziente, “nonché gli esiti degli esami ematochimici che attestavano la presenza di blasti nel sangue”. In seguito all’”omissione diagnostico terapeutica faceva seguito quella degli altri imputati, tutti medici in servizio presso l’ospedale Oglio Po di Casalmaggiore”, ospedale presso iassoluzionl quale il paziente si era recato più volte tra il dicembre del 2008 e il 22 gennaio del 2009, “periodo di insorgenza acuta della malattia”.

Nel processo di primo grado era stata sentita anche la testimonianza del perito del giudice, il dottor Marco Zecca, del Policlinico San Matteo di Pavia, che aveva detto che “il ritardo non ha provocato un aggravamento della prognosi ed alcun danno”. “Per fortuna l’evoluzione”, aveva aggiunto, “è stata molto lenta e non si sono ridotte le possibilità di cura”.

Conclusioni che l’avvocato Gennari aveva definito “lapidarie”. “Il ritardo della diagnosi è stato non di un mese”, aveva spiegato Gennari, “ma di una settimana, cosa che non ha comportato perdita di chance in ordine alla possibilità di guarigione del paziente. Non c’è nesso tra la condotta e l’evento”.

Sara Pizzorni

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