Cultura

Quarant'anni fa venne ucciso Pasolini Visse a Cremona (che se ne dimentica)

Nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975, quarant’anni fa, veniva ucciso in maniera brutale a Ostia, percosso e travolto dalla sua stessa auto, Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, regista, drammaturgo: uno dei maggiori artisti ed intellettuali italiani del ventesimo secolo. Cremona, eccezion fatta per il Chaplin che propone sabato la proiezione restaurata del Vangelo secondo Matteo, non ha messo in cantiere nulla per ricordarlo mentre altrove vi saranno mostre, rassegne cinematografiche, spettacoli teatrali. Eppure Pasolini dal 1933 al 1935 visse qui, a Cremona, nella casa d’angolo tra via Platina e via 11 febbraio, al numero civico 3 e frequentò il liceo ginnasio “Daniele Manin”. Una targa apposta dalla amministrazione Corada, non senza battaglie ideologiche in consiglio comunale e in commissione toponomastica, lo ricorda. “Da questa casa dove terminò la sua infanzia dal 1933 al 1935 Pier Paolo Pasolini dispiegò la sua avventura artistica”.

Pasolini in un'immagine del periodo cremonese

 

Pier Paolo Pasolini era nato a Bologna il 5 Marzo 1922. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza Pier Paolo e la sua famiglia seguiranno il padre, tenente di fanteria, nei suoi diversi spostamenti. Anche se è Casarsa, in Friuli, paese natale della madre e dove risiedevano i nonni materni, il luogo che resterà più radicato nei ricordi del poeta. A metà dell’anno scolastico 1932-1933 il padre fu trasferito a Cremona fino al 1935 quando ci sarà un nuovo trasferimento, a Scandiano vicino a Reggio Emilia. “Cremona era la prima città che vedevo” avrà occasione di scrivere Pasolini “e mi sembrò una metropoli”. Al liceo Manin solo bei voti e un nove in italiano. I compagni di classe dell’epoca lo ricordando piccolo, magrissimo, zelante. Suo compagno di banco fu l’ingegner Orsetto De Carolis che lo ricordava così: “Facevamo a gara per poterlo superare. Ricordo la mia rabbia perché mi ritenevo bravo in italiano e alla fine spuntai solo un otto, lui mi batté con un nove pieno”. “Ero il suo compagno di banco ma non mi dava grande confidenza”, ricorda ancora. “Probabilmente per la sua timidezza, parlava poco. E non gli dovevo neppure essere molto simpatico. Forse perché quando facevamo la lotta, perdeva sempre. Così mi rifacevo di quel voto in meno in italiano scritto”. Compagno di giochi fu il professor Giuseppe Pontiroli, poi diventato ispettore della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, con cui imbastica rievocazioni salgariane e scontri tra indiani e cow boy. Purtroppo dei temi di Pasolini al Liceo Manin, per una serie di problemi, non è rimasta alcuna traccia.

 

OPERETTA MARINA

da Romàns di Pier Paolo Pasolini

La forza con cui Cremona mi aveva colpito, accogliendomi come uno straniero, quasi come un orfano ~ esponendo davanti ai miei occhi incapaci di giudizio, le sue superfici di pietra, l’antico affaccendarsi umano del centro, le zone erbose della periferia fluviale – si era attutita contro quella mia remissività, cresciuta all’interno, con la nuova forma che in me aveva preso mia madre: leggerezza, dedizione, miste a una serietà che era addirittura intransigenza.

Si usciva di casa, all’angolo di via Il Febbraio, e, lasciate a destra le strade, così crudamente cremonesi, che percorrevamo ogni giorno per andare al Ginnasio, ci si spingeva lungo i biancastri, sonori selciati in direzione del Teatro Ponchielli, dove la città si faceva più vuota, e quasi sconosciuta. Così giungevamo alla impolverata piazza, dimessa come quelle delle fiere paesane, dove cominciava il viale del Po; le ultime chiazze di neve tra le rotaie del tram che solitario si dirigeva sotto le file nude dei castagni verso il capolinea del fiume, sopravvivevano rigide allo splendore che le distruggeva, ai biancori che laccavano il sereno.

Quasi con sgomento, il viale terminava contro la breve salita che portava al ponte; le file dei castagni si interrompevano, sul capolinea abbandonato, e da una parte e dall’altra si distendevano, le cespugliose, disordinate campagne, limitate contro il cielo dagli argini invernali.

A sinistra scendevano su un piatto, sporco prato, contro scarpate, ripari e terrapieni che empivano lo stesso orizzonte, le strade per cui si scendeva al livello del fiume, e la stradina interdetta della Baldesio. Ma noi lasciavamo da una parte quei siti invasi dalla civiltà, quegli avamposti appena costruiti e già in rovina, malgrado le fresche vernici turchine dello chalet e delle barchette allineate sul sabbione, malgrado la ferrea ossatura del ponte tra i cui piloni il fiume si faceva spaventoso; e giungevamo alle boschine, assetati dallo spazio che ingoiava gli sguardi sul pelo torbido dell’ acqua, immenso specchio fangoso che trascinava con se il cielo contro le rive ancora friggenti del biancore della neve.

Davanti alla corrente del Po, niente avrebbe potuto spostarmi fuori dal campo della mia uniforme fantasia. Il solo vederlo; riaccendeva, come in un vastissimo solco, già da tempo profondamente scavato in me, l’immagine di un mare; ma, poiché il mare non lo avevo mai visto se non nei versi e le figure dell ‘Odissea, o nelle brucianti inquadrature della Tragedia del Bounty e dei Capitani coraggiosi, dal Po prendeva la vertigine, la torbidità, moltiplicandole migliaia di volte ma fissandole in uno splendore salato, abbacinante, fossile; si presentava, quell’ immagine, non appena ci fossimo avvicinati al pelo dell’ acqua, a sporgerci nel vuoto, mescolando l’odore che la corrente sommuoveva dalla superficie dell’ acqua, odore freddo, vegetale, con quello, tutto mentale, dei grandi golfi, delle spiagge dei tropici.

Nei cavi meriggi dei giorni di scuola, e, in quelli di vacanza, anche nel chiarore del mezzogiorno, echeggiava tra le nitide rampe delle scale di casa mia, il richiamo alla moglie lanciato dal vecchio padrone di casa alla più radicalmente cremonese di tutte le persone di quella Cremona divenuta mia patria pareva scandire, con distacco nel mio umorismo di impube, già cosciente, una vita insostituibile, unica; tutto il passato aveva la prospettiva della çasa di via 11 febbraio, con la vita dei vicini che ne aveva preso la famigliare durezza, delle poderose superfici del Duomo piantate contro il cielo a elevarvi, in abbandono, la città appiattita ai loro piedi, o delle strade verso il Po e dello stesso, barbarico corso del fiume.

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