Cronaca

Squilibri tra italiani e stranieri a Cremona il maggior rischio di devianza

Una città divisa in due, da una parte i benestanti, dall’altra ampie sacche di povertà, soprattutto straniera, con una spiccata tendenza dei due mondi a non guardarsi in faccia, magari con pratiche di beneficenza e di solidarietà che non portano ad una vera integrazione. Cremona è uno dei capoluoghi di provincia con i più alti tassi di “precarietà” sociale, seconda, dopo Livorno, con 129,9 punti, contro una media italiana di 100. E’ il risultato dell’analisi condotta per il Corirere della sera dalla Fondazione Leone Moressa e pubblicata sull’edizione del 30 marzo. La Fondazione ha messo sotto esame i 116 capoluoghi italiani incrociando i seguenti indicatori: acquisizioni di cittadinanza, disoccupazione straniera, differenziale Irpef tra autoctoni e non, percentuali straniere su delitti e detenuti, livelli di interventi e servizi dedicati. Sono state così individuate quattro aree: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione: fatta 100 la media italiana della precarietà sociale individuata da questi quattro fattori, Livorno eccede di 30,9 punti e subito dopo viene Cremona, con 29,9 punti in eccesso. Nel gruppetto di testa si trovano altre città di medie dimensioni, come La Spezia, Rieti, Lodi, Piacenza, Pavia, Trieste, ma anche Trento e Bologna. “Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, questo mondo diventa chiuso e conservatore”, commenta il sociologo Mario Abis sul Corriere, mentre Domenico Masi rileva che l’integrazione è più difficile nei centri urbani di dimensioni medio piccole, dove c’è una minore abitudine alle diversità intese come nazionalità straniere. “Il paradosso è che le zone più rischiose sono anche quelle più civiche (…) Già si sapeva che i ricchi escludono più dei poveri” e difatti, nella classifica dei capoluoghi di regione, le città di Bologna e Trieste sono quelle con problemi di integrazione più vistosi (124,3 e 123,5), mentre Napoli e Reggio Calabria sono i centri più inclusivi (76,7 e 65,3).

Lo studio, precisa la Fondazione, analizza “la precarietà sociale nelle città italiane, osservando la marginalizzazione degli stranieri e, di conseguenza, il rischio banlieue. Mettendo in relazione la condizione socio economica della popolazione straniera con i tassi di criminalità e con la presenza o meno di investimenti pubblici per l’integrazione, è possibile valutare quanto nelle nostre città sia alto il rischio di marginalizzazione e, di conseguenza, di disagio e devianza.
Complessivamente sono stati analizzati 9 indicatori, da cui si è ottenuto un indice di “precarietà sociale”, utile a definire una classifica delle città più a rischio. Laddove si riscontrano scarsa inclusione socio-economica, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto. L’indice non misura dunque il rischio assoluto delle diverse città (che ovviamente dipende anche da fattori diversi: sociali, culturali e amministrativi), ma aiuta a comprendere dove gli squilibri tra italiani e stranieri sono più forti e dove possono determinare situazioni di esclusione sociale”.

Un “Efetto banlieu” che ben conoscono ad esempio i sacerdoti dei quartieri periferici, come don Maccagni dello Zaist, più volte intervenuto sul problema degli oratori costretti a supplire oltre le loro possibilità alle acrenze del sistema pubblico in termini di centri di aggregazione. E qui si resta nell’ambito giovanile, forse quello più intercettabile pur tra mille difficoltà. Figuriamoci com’è difficile l’integrazione tra italiani e stranieri dai quarant’anni in su.

g.b.

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