Cultura

Grazia Deledda (1871-1936)

Grazia Deledda era nata il 27 settembre 1871 da Giovanni Antonio Deledda (detto Totoni) e da Francesca Cambosu. La famiglia era di medi possidenti sardi. Il padre, uomo d’affari, commerciava in lana, in scorza di sughero, in formaggi, ma inviava anche carbone in continente. La perdita di una di queste attività ne intaccherà notevolmente il patrimonio, al tempo in cui Grazia, purtroppo era ancora bambina. Ma egli, che era di natura estrosa e cordiale, continuava a coltivare un suo amore per la cultura. Era anche poeta (estemporaneo) estroso e geniale; molto stimato per la sua onestà e per il suo personale equilibrio.

Dalle pagine del romanzo ‘Cosima’ (1937) sappiamo che la madre era una “donna all’antica”, onesta “per dovere innato” e, come tale, vestiva in costume. Veniamo pure a sapere che aveva sposato Totoni “senza amore”, e Grazia lo capirà piuttosto presto, notando la sua costante malinconia mentre, silenziosa, dedicava tutto il suo tempo alla casa e ai suoi due figli, Santus e Andrea, oltre che alle cinque figlie. Aveva amato, una volta? Si diceva che sì, prima di sposarsi, avesse corrisposto ad un giovane povero.

Ho sottolineato questo perché credo che, nonostante la severa educazione ricevuta, questa vicenda abbia contribuito a far nascere nella giovane Deledda il pensiero della esistenza di una ‘forza superiore’, di un destino che governa la vita dell’uomo e a cui è vano opporsi.

La scrittrice esordì a diciassette anni con alcuni racconti pubblicati su una rivista di mode e qualche anno più tardi scrisse il suo primo romanzo, Fior di Sardegna (1892). Proseguì poi pubblicando di anno in anno una quarantina di volumi di romanzi e racconti. Trasse dai suoi romanzi qualche dramma: L’edera, La Grazia e Cenere, ridotto per lo schermo nel 1913 ed interpretato da Eleonora Duse.

Il vero cammino dell’arte di Grazia Deledda appare teso, al di là di ogni apparenza, in una infinita ansia di innocenza, mirata alla affermazione della responsabilità dell’uomo nei  confronti di se stesso e dei propri simili. Di più: la concezione più matura della sua cifra letteraria mostrerà che l’uomo può rendersi autore, rinunciando al proprio egoismo, di una sorta di collaborazione alla redenzione operata da Gesù Cristo, in una formale prosecuzione di questa.

Ma al di là di ulteriori immagini relative alla crisi del tempo (di cui Deledda era frutto), notiamo come la crisi della Sardegna primitiva e intatta, diventi l’eterna nostalgia dell’uomo per la innocenza perduta (oltre che per un Eden perduto!). E come nei suoi personaggi la strada della liberazione, da stati di servitù tipici di una precisa contingenza storica, diventi la strada della liberazione per tutti noi dall’eterno “servigio delle passioni”.

Grazia Deledda fece scoprire la Sardegna agli stranieri e agli Italiani del continente. La Sardegna era un mondo chiuso, dove gli abitanti della città e della campagna si ignoravano reciprocamente, e dove alle giovani donne era concesso di uscire di casa solamente per recarsi alla Chiesa al fine di assistere alle funzioni religiose di precetto, o per qualche rara passeggiata in campagna.

Circa  vent’anni fa, nel Seminario di studi sulla scrittrice sarda proposto dalla Giunta comunale di Soncino, fu sottolineato come il valore delle pagine letterarie di  Grazia Deledda fosse riproponibile nell’attualità. Ed è un rimando questo che è trasferibile anche ai nostri giorni. Allora si poterono ascoltare le dotte relazioni di Mariangela Vicini (“Grazia Deledda e le terre del Po”), di Bruno Rombi (“Una vita sopra la vita”), di Giuseppe Todaro (“Grazia Deledda: aggiornamenti critici”), di Neria De Giovanni, presidente dell’Associazione internazionale dei Critici letterari (‘Le figure femminili di Grazia Deledda’), e di Alessandro Madesani Deledda (‘Caro Palmiro’ – storia di un matrimonio’).

Presieduto dall’assessore Giovanni Maccabelli, il Seminario offrì varie diverse ‘angolazioni’ sulla grande scrittrice, fra le quali l’eccezionalità dell’opera di Grazia Deledda, secondo Nobel femminile della letteratura per l’anno 1926. Mi ricordo ancora cosa disse Giuseppe Todaro sulla ‘Graziedda’ (così era amabilmente chiamata dagli amici), definendola “Il Mostro sacro della nostra letteratura”. E si parlò anche in quel Seminario della visione del mondo della scrittrice sarda, visione comprensiva di una “concezione profonda della vita di tono religioso” e della convinzione del “trionfo finale delle forze del bene”, così come della “deprecazione delle leggi a favore del latifondo a danno dei pastori”, e della sua denuncia sulla “distruzione dei boschi per fare traversine ferroviarie”. Del pari lanciò un angoscioso allarme sulla “chiusura dei pascoli”, e “gli schiaffi morali alle costumanze”. C’è ampia materia per rileggere Grazia Deledda anche ai nostri giorni.

Gianfranco Taglietti

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