Cronaca

No alla discarica di Vescovato, il Tar: iter durato troppo, 4 anni e mezzo invece di 150 giorni

Lo stop all’ampliamento della discarica di Malagnino costerà alla Provincia 100mila euro non previsti. L’ente li ha prelevati dal fondo di riserva, che aveva una disponibilità sufficiente, a seguito della nota del dirigente del Settore Agricoltura e Ambiente che informa della “urgente necessità di reperire risorse a seguito dell’esito del ricorso al Tar, che ha annullato il decreto n.1860/2013 con cui Regione Lombardia autorizzava in favore di AEM Gestione srl l’ “espropriazione per pubblica utilità per ampliamento discarica per rifiuti non pericolosi nel territorio comunale di Vescovato”. Di conseguenza verranno tolti 100mila euro dal fondo di riserva per il proseguimento della gestione della discarica di Castelleone per l’anno 2013. Malagnino infatti è satura. Un bel pasticcio, quello della discarica alle porte di Cremona, sistema di smaltimento rifiuti ritenuto da molti superato, con conferimenti sempre più ridotti con l’aumentare della differenziata e con la pratica dell’incenerimento. Il problema è che non tutto può essere differenziato e una quota di rifiuti necessita dei vecchi sistemi di smaltimento.

Che il sito di Malagnino fosse ormai al massimo Aem lo sapeva da tempo ed ha perseguito la strada dell’accordo bonario (e poi dell’esproprio per pubblica utilità) sui terreni confinanti di Vescovato. I proprietari si sono opposti e a marzo 2013 il Tar ha dato loro ragione. Ma perchè? Le motivazioni della sentenza di I grado evidenziano un motivo macroscopico, ossia la lentezza dell’iter procedurale per l’ampliamento, iniziato il 22 novembre 2007, con la presentazione dell’istanza da parte di Aem, e conclusosi con il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale il 12 giugno 2012. Un lasso temporale definito “del tutto irrazionale, abnorme, ingiustificato, contrario al principio della buona amministrazione”, come scrivono i privati che hanno fatto ricorso e confermano i giudici amministrativi. Il termine previsto (ma non perentorio) per la conclusione dell’iter doveva essere di 150 giorni: invece sono trascorsi oltre 4 anni e mezzo. In tutto questo tempo, osservano ancora i giudici, “nessun soggetto interessato alla relativa conclusione del procedimento medesimo si è mai fatto parte attiva per sollecitare la conclusione dello stesso, chiamando in causa le autorità centrali, né queste si sono mai spontaneamente attivate”.

Questa lunghezza temporale ha inoltre consegnato un progetto alla fine già vecchio, non aggiornato ai “diversi progressi della scienza e delle tecniche di specie, soprattutto sotto l’aspetto cautelare di preservazione dell’ambiente (…) e del sottosuolo  (…) Un simile progetto in quanto necessariamente da attualizzare, sarebbe necessitante di non poche cautele tecnologiche (…)”.

E il fattore tempo, considerato come “bene della vita”, è risultato alla fine decisivo nel giudizio. Ovviamente Aem e Regione Lombardia hanno da tempo presentato ricorso in appello, mentre la Provincia ha ritenuto di non farlo in quanto non direttamente competente al rilascio dell’autorizzazione, ma coinvolta solo per gli aspetti “endoprocedimentali”.

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