Il giornalista Paolo Rumiz scopre “una casa degli spiriti”tra i canali del Cremasco
Paolo Rumiz, giornalista de La Repubblica, viaggia lungo l’Italia alla ricerca di città morte e luoghi perduti e narra le sue esperienze nella rubrica “Le case degli spiriti“. La ventunesima tappa di quest’avventura porta il giornalista tra i canali del Cremasco, più precisamente presso la cascina Ronchi. «I ricordi degli oggetti, dei mestieri, dei giochi e dei cibi di un Paese che non c’è più» così anticipa il suo racconto Paolo Rumiz. Il viaggio inizia con una pioggia incessante sulla Padania e con l’incontro della sciura Mia, in sella alla sua bici, sulla strada che porta al casolare di Offanengo. «Aveva familiarità con l’acqua, era stata mondina, e andava veloce. Di lei vedevo ormai solo l’ombrello aperto e la permanente d’argento» riporta Paolo Rumiz. Poi spiega: «Mia aveva conosciuto la cascina Ronchi nei giorni grandi, quando vi abitavano centocinquanta persone, cento mucche da latte e una ventina di cavalli. Oggi vi trovava riparo solo una famiglia di indiani. La campagna era vuota di uomini». La descrizione di un mondo ormai pieno di fantasmi continua e la storia prosegue: “Villa Obizza, una meraviglia secentesca a Bottaiano di Ricengo, stava crollando e il suo frontone mi aveva guardato con le occhiate di un film di Dario Argento. “Non sopravviverà a un altro inverno», mi aveva detto il sindaco Ferruccio Romanenghi, triste di non essere capito dalla sua gente. «Non ci sono soldi – gli dicevano – perché ti ostini a voler salvare una cosa morta?» di seguito una frase che colpisce nel segno «Una cosa morta: ecco cosa era diventato il patrimonio culturale d’Italia». Lo sguardo attento del giornalista ci porta in un mondo quasi completamente abbandonato, dove regnano crepe nei muri e dove le stanze sono riempite da vecchi utensili, se non addirittura vuote. L’unica traccia di vita è data dalla presenza di qualche libro straniero. Cumar, pachistano del Punjab lavora ogni tanto come trattorista nella fattoria. Si legge, sottintendendo il pensiero di Mia: «Di certo avrebbe affidato la cascina più volentieri a lui che a tanti giovani di casa sua rovinati dal Grande Fratello». A Offanengo, Paolo Rumiz incontra Antonia Bianchessi nel museo della memoria rurale, che gli dice: «Non ci sono più i temporali di una volta”» poi prosegue «La mamma correva nell’aia a portare le croci contro la folgore, e noi bambini salivamo con pentole e catini per raccogliere l’acqua che filtrava dai tetti». Le storie di quel tempo passato continuano a cena da Rodolfo Cappelli, figlio di un ex mungitore alla Ronchi, e Franco Maestri, un anziano signore che aveva vissuto nella cascina e che riporta: «Era un’oasi assoluta, lì la guerra non s’è mai sentita. La fame nemmeno». Dopo aver fatto riaffiorare gli episodi di quella vita, il momento migliore arriva quando Franco evoca i cibi tipici: «Ah, lo zabaglione col vino, le uova rubate nei nidi, i pesci di fosso fritti, il salamino per bambini dopo l’uccisione del maiale, il pane fatto una volta al mese e la focaccia zuccherata per i piccoli». L’ospite resta affascinato nonostante i prodotti siano sinonimo di povertà e quando l’amico parla della polenta, lo scrittore riporta: «La vedo come fosse ora. La barbòta, la sìfula, la scatègna, la brùntula. Poi eccola lì, fumante. Luna piena in mezzo a noi».
Diana Ghisolfi