Morì cadendo dalla barella dopo
sette ore in PS. "Omessa vigilanza"
A processo un medico e un'infermiera del Pronto soccorso del Maggiore. Il personale: "tempi di attesa abnormi per l'emergenza Covid"
“Mia madre era una persona minutissima, molto piccola. E’ sempre stata serena e lucida. Era come se fosse la mia ‘segretaria’: mi ricordava gli appuntamenti, le scadenze. L’ho mandata in ospedale che era sana, e avrei voluto vederla tornare“. E invece non è stato così. A parlare, al processo contro un medico e un’infermiera del pronto soccorso dell’ospedale di Cremona accusati di omicidio colposo, è Patrizia, di professione infermiera, figlia di una donna di 86 anni deceduta il 13 maggio del 2021 in seguito ad una caduta dalla barella dopo un’attesa di sette ore. Dopo la caduta, l’anziana era stata operata dal neurochirurgo e poi trasferita in terapia intensiva, ma purtroppo i medici non erano riusciti a salvarle la vita.
L’anziana, che soffriva di un grave ipovisus, una diminuzione della acuità visiva, il 27 aprile aveva accusato vertigini improvvise, senza mai perdere lucidità, e così la famiglia aveva deciso di chiamare l’ambulanza affinchè in ospedale potesse essere sottoposta ad accertamenti. “Erano vertigini fortissime intervallate a periodi di tranquillità”, ha raccontato la figlia. “Mia mamma diceva che si sentiva sprofondare”.
In pieno periodo pandemico, l’anziana era arrivata in pronto soccorso verso le 14. In attesa che fosse visitata era stata messa su una barella. La figlia, in attesa di notizie, aveva sentito la madre al telefono una sola volta. Per via del Covid non aveva potuto stare vicino alla mamma. “Avevo ricevuto una telefonata dall’operatrice sanitaria che mi aveva comunicato che mia madre voleva sentirmi, ma non aveva credito al telefono. Così l’ho chiamata io”, ha riferito Patrizia. “Quando l’ho sentita, mi ha detto che non le avevano ancora fatto niente, che era stanca di aspettare. Voleva tornare a casa, ma io le ho detto di avere ancora un pò di pazienza”.
Alle 21 Patrizia aveva ricevuto una telefonata del medico del pronto soccorso che l’aveva informata che la madre caduta dalla barella, che era entrata in coma e che era stata trasferita in terapia intensiva. La figlia era stata poi tenuta costantemente aggiornata sulle condizioni della paziente dal neurochirurgo che l’aveva operata. Ma non c’era stato nulla da fare. L’anziana era deceduta il 13 maggio.
Secondo l’accusa, da parte degli imputati ci sarebbe stata una omessa vigilanza, avendo lasciato sola per sette ore la paziente che avrebbe poi cercato di alzarsi, cadendo dalla barella non dotata di spondine. Per la difesa, invece, la barella era a norma e l’anziana era stata vigilata correttamente in attesa della visita medica. I tempi di attesa erano stati abnormi in quanto l’ospedale era in piena emergenza Covid. Il medico del pronto soccorso finito a processo, inoltre, era entrato in turno solo alle 20.
Per quanto riguarda la barella, tutti i testimoni sentiti oggi a processo hanno dichiarato che era dotata di spondine a tre quarti. Per i tempi di attesa, il coordinatore infermieristico del pronto soccorso ha ricordato che all’epoca, in terza ondata Covid, “i tempi di attesa e i tempi di ricovero erano superiori alle 6 ore e c’era il vincolo dell’attesa del risultato del tampone molecolare”. Tra i testimoni, anche Francesca Maria Cò, direttore del pronto soccorso. “In quel periodo i tassi di ricovero erano il doppio con pazienti più complessi. Il 40% era in codice giallo”.
L’anziana paziente era stata trovata a terra da una delle infermiere: “Ho sentito un rumore e ho visto la signora. Era prona con la testa verso il lettino. L’ho chiamata, ma non mi ha risposto. Quando l’ho girata aveva gli occhi aperti. Era rallentata, ma poi ha risposto. Aveva un segno sulla fronte e l’abbiamo portata in ambulatorio”. “Il letto”, come ricordato anche dall’infermiera, “aveva le spondine parziali ai lati. All’epoca c’era un sovraccarico assistenziale per via del Covid e per le attese dovute ai tamponi. Il carico di lavoro era aumentato per tutti, e quello era stato un pomeriggio impegnativo”.
Ad essere chiamata a testimoniare è stata anche l’operatrice sanitaria che aveva chiamato la figlia per farla parlare al telefono con la madre. “La paziente era un pò agitata, e per calmarla l’ho fatta chiamare dalla figlia. Facevo spesso dei passaggi per andarla a vedere. Quando è caduta io ero al triage con la mia collega che mi doveva dare il cambio. Era riversa verso la finestra e io sono rimasta malissimo. Le spondine della barella erano alzate”.
L’anziana era entrata alle 14 in codice verde, trasformatosi in giallo alle 19,37 in seguito alla valutazione dell’infermiera che aveva notato un aumento delle vertigini. Per l’accusa, l’infermiera avrebbe dovuto rivalutare la paziente dopo 15 minuti e chiamare il medico.
A processo, il medico è assistito dall’avvocato Isabella Cantalupo, mentre l’infermiera dall’avvocato Diego Munafò. L’Asst, chiamata in causa come responsabile civile, è rappresentata dall’avvocato Francesco Meloni, mentre Patrizia, la figlia della vittima, che di professione faceva la sarta, si è costituita parte civile attraverso l’avvocato Luca Curatti.
A suo tempo il procedimento era arrivato davanti al giudice per l’udienza preliminare di Cremona che per il medico e l’infermiera aveva emesso sentenza di non luogo a procedere. La procura e la parte civile, però, avevano impugnato la decisione, arrivando davanti alla Corte d’Appello di Brescia. I giudici avevano dichiarato nulla la sentenza del gup di Cremona, ritenendo necessario un approfondimento dibattimentale.
Si torna in aula con l’ultimo testimone del pm e con i consulenti il prossimo 28 maggio.
Sara Pizzorni