Cultura

Un bandito nella Cremona
del '600: Galeazzo de' Marchi

di Fabrizio Superti

Cremona inizio del Seicento. In un contesto politico in cui l’ordine pubblico spesso stenta nel garantire il rispetto delle regole, un irrequieto personaggio, rispondente al nome di Galeazzo de’ Marchi, si muove con disinvolta alterigia sfidando le Autorità compiendo azioni criminali che interessano diverse località del cremonese. Pur essendo già stato oggetto di provvedimenti di espulsione dal territorio facente capo allo Stato milanese, il ribelle capobanda non si cura nel perseguire nelle sue intemerate scorribande.

Ma chi era questa sorta di temuto giovane dedito ad azioni banditesche? Lo specificava il rapporto stilato a corollario della richiesta di istituire una taglia sulla sua persona: “… questo Galeazzo, d’età di anni 27, non timorato di Dio, dato a vita licenziosa di gioco e di altri vizii” era giunto a minacciar ripetutamente lo zio in merito, pare, a questioni riferite alla proprietà dei beni di famiglia.
Le rivendicazioni mosse verso il congiunto venivano esplicitate con vere e proprie spedizioni compiute alla guida di gruppi di armati. Le angherie rivolte allo zio Lodovico si sommavano a quelle portate ai danni del suo affittuario che gestiva un podere posto nell’abitato di Castelnuovo del Zappa; alle reiterate minacce faceva, infatti, seguito, nella nottata del 13 gennaio del 1619, una incursione del Galeazzo che penetrava nel cascinale,
“non stimando al bando suo, mosso dalla sua irrefrenabile natura, andò in loco con unione di uomini armati di archibugi et facendo uscire le bestie dalla stalla del fittabile per accendervi il fuoco.
Pregato dai poveri contadini che con ginocchi a terra si trovavano a subir questo danno, si trattenne, ma minacciando di ritornare se detto fittabile non si partiva, gli rubò una cavalla che tra esse bestie si trovava e fatte nel partire simili minacce al molinaro sparandoli delle archibugiate nelle finestre inferiori con molto pericolo della vita propria, della moglie et figlioli”.

Le notizie delle gesta compiute dall’intemerato Marchi, in aperta sfida alle autorità del territorio, giungevano anche presso l’Ufficio comunale di Cremona che, stante la complessa situazione, si attivava per richiedere un drastico intervento presso le Istituzioni superiori.
Lo stesso Lodovico Marchi, sfinito dalle intemperanze subite ad opera del nipote, inviava ed allegava una supplica al fine di sollecitare una definitiva soluzione al reiterato disbrigo che lo affliggeva; la memoria inoltrata costituiva uno straordinario affresco capace di rappresentare al meglio lo stato d’animo di un suddito che, seppur misurato e riverente nella forma, manifestava un profondo disagio per la condizione in cui si dibatteva. Le traversie patite gli rendevano difficoltosa la gestione dei propri beni che, viste le “turbolenze di guerra” in atto, risultavano per di più gravati da “carichi di tasse eccessive” nonché dell’obbligo di alloggiare soldati ordinari e straordinari con ulteriore gravame economico e disturbo alle attività agricole. Sono le amare ed impotenti riflessioni di un uomo di inizio Seicento chiamato ad operare in un contesto storico caratterizzato anche dal palpabile senso di insicurezza e precarietà che le frequenti tensioni fra Stati producevano con scansioni temporali alquanto ravvicinate.

LA TAGLIA. La richiesta di intervento veniva fatta propria dalle Autorità che emettevano una Grida, dal prosaico frasario proprio dell’età spagnola, in cui si sottolineava come … “la temerità et insolenza usate da Galeazzo de’ Marchi, bandito da questo Stato, ci paiono degne d’esemplare dimostrazione. (..) Perciò con parere del Senato col quale il tutto participato abbiamo, Vi commettiamo che facciate pubblicar grida, con la quale promettiamo il premio di scuti cento à chi ammazzarà detto Galeazzo de’ Marchi e à chi lo consegnerà nelle nostre forze di scuti venticinque offerti dal detto Lodovico suo Zio e di più la liberazione d’un bandito di caso gratiabile.”

La comunicazione in oggetto veniva pubblicata, ed assumeva piena validità, la sera del 31 gennaio del 1619 sopra l’Arengario da Giacomo da Prato, il “Tubatore” di Cremona.
La roboante Grida stabiliva pertanto le modalità economiche a vantaggio di coloro che avessero consegnato morto o catturato vivo il ricercato aggiungendo, fra l’altro, l’eventuale liberazione di un prigioniero rinchiuso nelle carceri del Ducato di Milano.

Il provvedimento adottato lasciava intendere che la cattura del Marchi fosse affidata, ancor più che alle istituzioni preposte, all’iniziativa di chi, mosso dalla lauta taglia, intendesse incamerare il compenso pattuito. La possibilità di poter conseguire la liberazione di un carcerato risultava inoltre funzionale a chi, magari, disponeva di un congiunto o di un affiliato ristretto in un penitenziario.
L’attività criminale di Galeazzo Marchi si era inoltre manifestata anche un paio di mesi prima quando, con un colpo di archibugio, aveva ferito Gio Batta Biondi scambiandolo per lo zio Lodovico; in quell’occasione era stato condannato a sette anni di carcere e alla riprovazione del Senato.
La colpa prevalente che gli veniva imputata riguardava la sua collaborazione a formazioni armate alle dipendenze di Principi stranieri; organizzazioni ovviamente al soldo di Stati italiani che, per le Autorità milanesi, rappresentavano un potenziale fronte di pericolo. Il fatto poi di essersi posto al servizio della Repubblica Veneta costituiva, all’epoca, l’addebito di maggior rilievo.

In un frangente storico in cui l’Europa intera risultava lacerata ed indebolita dalle tensioni provocate dai conflitti fra la Chiesa ufficiale e quella Riformata, il fatto di schierarsi per una delle fazioni in campo poteva costare, nella migliore delle ipotesi, l’interdizione o una dura persecuzione. Per un suddito degli Asburgo regnanti in Milano porsi al servizio di Venezia costituiva ovviamente un oltraggio da castigare severamente. L’alleanza posta in essere dai Francesi in versione anti-Asburgo aveva individuato, fra gli altri, proprio la Serenissima Repubblica Veneta come uno degli alleati di maggior rilievo e prestigio.

Le diatribe fra quest’ultima e Papa Paolo v accentuavano il livello dello scontro fra le posizioni in campo rasentando lo scontro diretto. Le divergenze in campo religioso fra il Vaticano e la Repubblica Veneta trovavano nel teologo veneto Paolo Sarpi uno degli intellettuali di maggior respiro e spessore; la sua profonda e dotta preparazione gli permetteva di duellare con le Autorità religiose in merito al rapporto ed al ruolo che dovevano, a suo dire, instaurarsi fra il potere civile e quello religioso. Fra i suoi maestri va segnalato il prestigioso teologo cremonese, appartenente all’Ordine dei Servi di Maria, Padre Giovanni Maria Capella, tanto celebre all’epoca quanto poi dimenticato all’ombra del Torrazzo.

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