Cultura

Il mulino di Acqualunga s.Abbondio
Dallo splendore alla decadenza

La storia esemplare di una cascina - comunità a pochi Km da Cremona, tra Persichello e San Marino: da cuore pulsante di un'economia "a KM0" all'abbandono di metà Novecento

di FABRIZIO SUPERTI

La cascina di Acqualunga S.Abbondio, tipica struttura agricola cremonese, giace ora silente ed immobile dopo che, per secoli, ha rappresentato una imponente e vivace realtà socio-economica del nostro  territorio; un silenzio che contrasta con un passato in cui il vasto immobile ospitava anche oltre venti famiglie dedite alla cura dei terreni circostanti.

Ancora nel Secondo Dopoguerra tutte le abitazioni risultavano ovviamente occupate ed alcune famiglie avevano trovato ricovero persino negli spazi solitamente adibiti alla conservazione dei cereali. Ora la decadenza mostra i suoi segni tangibili ed irreversibili. Un destino che accomuna tante cascine del territorio che, avendo perso significato rispetto alle moderne pratiche e tecniche di lavorazione, nell’arco di qualche decennio potrebbero venir meno rispetto al loro profilo originale.
La cascina di Acqualunga S. Abbondio rientrava fra i beni posseduti dai Padri teatini di S Abbondio che, ancora all’inizio del Settecento, possedevano in ambito provinciale proprietà per oltre diecimila pertiche milanesi. Nella parte laterale interna della cascina era ancora ben visibile, fino a qualche decennio fa, un corpo di fabbrica, separato dal resto dell’impianto, che riecheggiava nelle forme una sorta di chiostro. La vicinanza al monastero cittadino poteva forse rappresentare un luogo dove ritirarsi per esercitare, in un ambiente esterno, momenti di preghiera e spiritualità.
Il possedimento di Acqualunga risultava posizionato fra l’abitato di Persichello e il vicino insediamento di S.Marino; una collocazione di fatto baricentrica fra i due centri abitati ma già sufficiente, all’epoca, per costituire una distanza comunque considerevole per le dinamiche di movimentazione dei residenti nella struttura. Una struttura che nel tempo si era pertanto attrezzata per disporre di quei servizi essenziali a garantire una fruizione adeguata alle modeste richieste proprie del tenore di vita allora in essere.
Il cascinale disponeva, infatti, di un mulino, atto a garantire la trasformazione degli alimenti cardine della povera dieta contadina, nonché di una piccola chiesetta per la pratica religiosa. Una cascina-comunità di fatto autosufficiente che fino verso la metà del Settecento risultava ancora retta come un’entità amministrativa autonoma (in seguito aggregata al comune di Persico con Persichello).

La proprietà agricola assommava nel complesso a circa 1660 pertiche caratterizzate da un particolare pregio agronomico; dai rilievi effettuati in occasione della compilazione del catasto teresiano (1723) i terreni di Acqualunga venivano assoggettati ad un valore di quindici scudi alla pertica, un dato di assoluto rilievo che ne evidenziava la spiccata fertilità. I vari appezzamenti potevano, inoltre, godere di un efficace sistema di irrigazione garantito dalle acque della roggia Canziana che scorreva a nord della cascina; afferente al cavo irriguo era stato predisposto un maceratoio impiegato per la lavorazione del lino.
Con l’avvento dei francesi anche questo possedimento, al pari dell’intero patrimonio dei teatini, veniva assoggettato in carico all’Agenzia dei Beni Nazionali per poi essere acquisito, nel maggio del 1797, dal facoltoso commerciante cittadino Antonio Casagrande; quest’ultimo finirà nel volgere di pochi anni per costituire nel comune di Persico un cospicuo novero di poderi superiore alle tremila pertiche. Il podere di Acqualunga fu a lungo condotto in affitto da alcuni componenti della numerosa famiglia Manfredi che gestiva diverse aziende agricole del cremonese; nel 1806 si rinnovava il contratto locativo fra il Casagrande ed appunto i fratelli Carlo e Giovanni Manfredi.

ANCHE 500 UOVA DI GALLINA COMPRESE NEL COSTO DELL’AFFITTO
L’accordo prevedeva il canone di 12 lire milanesi alla pertica nonché una lunga serie di appendici che gli affittuari erano tenuti a devolvere al proprietario; fra queste spiccava la consegna di sei pesi di lino nostrano della miglior qualità per la festa di S.Martino, due carri di fieno maggengo ben stagionato, cinquecento uova fresche di gallina, un animale porcino grasso maschio di pesi tredici nel giorno di S. Lucia, piccioni da colombaia a scelta, latte e panna in quella misura ritenuta necessaria per i fabbisogni annuali e tanti altri conferimenti.
Le disposizioni definivano poi in maniera alquanto accurata la cura del patrimonio arboreo tanto a riguardo delle operazioni manutentive che della eventuale sostituzione di quelle rimosse.

CAMBIANO GLI AFFITTUARI, NON L’IMPORTANZA DEL MULINO
Il mulino ovviamente seguiva le sorti dei terreni cui era annesso finendo per essere gestito da un ramo parentale degli affittuari della cascina; l’attività dello stesso si ampliava ed accentuava in quanto le diverse proprietà del Casagrande erano tenute a servirsi dell’impianto molitorio facente capo presso la cascina di Acqualunga. Alla morte del Casagrande, per sue precipua volontà, i nipoti Saini si ripartirono l’eredità ricevuta spezzettando il considerevole patrimonio avuto in dote.

Ai Saini succedevano nella conduzione dell’azienda i Guarneri, nota famiglia di agricoltori molto ramificata in ambito cremonese, i quali svilupparono ulteriormente le pratiche agricole e l’attenzione verso le strutture aziendali. Il podere di Acqualunga si distingueva inoltre come il più esteso tanto per dimensioni che per dotazione zootecnica nell’intero territorio oggi facente capo al comune di Persico-Dosimo.

All’interno dell’ampia aia si trova ancora oggi un cippo stradale in granito recante le indicazioni di una strada privata di proprietà dei Guarneri; quest’ultimi erano intervenuti anche sul vicino oratorio dove avevano commissionato la stesura di una serie di affreschi raffiguranti scene tratte dalle sacre liturgie in cui i volti dei personaggi biblici erano stati presi in prestito dai residenti della cascina. Volti tanto realistici al punto da sfoderare dei baffi in voga nell’età umbertina.

ACQUA E MULINO PER UN’ECONOMIA A KM ZERO
L’esistenza del mulino di Acqualunga risulta certa, stando agli atti redatti dal notaio Cesare Borsa, già a partire dal 1631; l’edificazione della struttura molitoria risultava possibile sfruttando le acque della roggia Gambara che scorreva proprio a fianco della cascina. Le operazioni attuate per consentire il passaggio del cavo irriguo sopra il naviglio civico nei pressi della via Brescia, operate verso la fine del XVI secolo, ne avevano garantito il dispiegarsi a favore delle cospicue proprietà che i Padri di S. Lorenzo possedevano nell’allora comune del Forcello. L’opera idraulica portava infatti la dizione facente capo al potente cardinale Gian Francesco Gambara, vescovo di Viterbo e fra i più facoltosi prelati dell’epoca, che ricopriva anche la carica di Abate commendatario dell’ordine Olivetano di S. Lorenzo.

Il nuovo mulino costituiva, di fatto, una sorta di joint venture approntata dalle due Abazie cremonesi che ottimizzavano i reciproci interessi garantendo una il luogo fisico e la struttura e l’altra la necessaria disponibilità irrigua. In una economia a chilometro zero il possesso o la disponibilità delle acque e di uno strumento di trasformazione dei cereali garantiva un dominio pressoché assoluto sul territorio.
La roggia Gambara sul suo percorso ospitava ben tre mulini: uno a Muradelle (nel comune di Castelverde), uno ad Acqualunga e l’ultimo in località Forcello. La condivisione dell’impianto, gestito in comproprietà, non sempre risultava esente da contrasti e dissapori relativi tanto alla ripartizione del gravame fiscale quanto alla spicciola gestione dello stesso; il mulino possedeva due ruote e disponeva, inoltre, anche di una pista da riso.

Il rapporto fra i proprietari dei mulini e gli utenti delle rogge su cui erano impiantati gli stessi opifici risultava spesso assai conflittuale; gli attriti si acuivano ovviamente in occasione di annate caratterizzate da marcata siccità e relativa penuria di acque irrigue.
Il sistema di irrigazione per secoli si è basato su una straordinaria rete di canali, frutto di una sapiente e progressiva opera di ingegneria idraulica, che necessitava però di una adeguata portata al fine di consentire un corretto “adacquamento” dei terreni.

Il funzionamento dei mulini comportava un inevitabile rallentamento (la gonfiatura) nel deflusso ordinario delle acque compromettendo, a volte, la piena fruizione delle stesse a favore dei proprietari terrieri cui spettava, contrattualmente, una determinata disponibilità irrigua.

ESTATE 1867. IL MULINO DI ACQUALUNGA ACCUSATO DI  TOGLIERE L’ACQUA AI CAMPI
Fra i vari episodi di reiterati contenziosi occorsi nel tempo si segnala anche quello sorto fra il conduttore del mulino di Acqualunga, sostenuto dal proprietario dell’impianto, ed un nutrito gruppo di aziende agricole collocate nel territorio del Forcello; quest’ultime utilizzavano il cavo della Gambara per irrigare le varie colture messe a dimora.
Nell’estate del 1857 la carenza di acque aveva comportato, secondo le stime prodotte dai presunti danneggiati, una significativa contrazione nei raccolti dei prati, del granoturco e del riso; tale situazione a loro dire traeva origine anche dalle modalità improprie nella gestione delle acque messe in atto dal mugnaio di Acqualunga Geremia Gardani. Quest’ultimo nel mese di luglio avrebbe, almeno in tre occasioni, abbassato le paratie poste sulla roggia Gambara per alimentare a piena forza il suo mulino impedendo il corretto defluire delle acque nel tratto posto a monte dell’impianto.
La vertenza era sfociata in una richiesta di risarcimento su cui era stato chiamato ad esprimersi il locale tribunale civile; la complessità della vicenda rendeva necessaria la redazione di una perizia tecnica che veniva affidata al noto ingegner Eugenio Nogarina affiancato dal collega Ernesto Pasquinoli. Il proprietario del mulino di Acqualunga, il dottor Paolo Saini, nominava a sua volta un tecnico di fiducia nella persona dell’ing. Luigi Dovara. I due tecnici predisponevano, seguendo le direttive loro impartite dal tribunale, un accurato studio teso a monitorare lo stato della roggia Gambara per valutarne la portata, le eventuali perdite ed il ruolo esercitato dai mulini.

Verso la metà di settembre i vari periti compivano, per oltre una decina di giorni, una serie di sopralluoghi tanto presso il mulino “incriminato” che nei vari possedimenti oggetto di reclamo. Fra i patrocinatori della vertenza si segnalavano, fra gli altri, i fratelli Antonio e Giulio Grasselli, possessori dei poderi Cà dell’Ora e Lago Scuro (condotto da Luigi Quaini), la nobile casa Fraganeschi,  proprietaria della cascina Bagarotto, nonché Giacomo Marzari presso il podere Forcello. Le motivazioni addotte fornivano precise stime in merito alle riduzioni di produzioni avvenute in seguito al non perfetto approvvigionamento idrico dei terreni. Per ogni appezzamento veniva indicata la coltura in essere e il quantitativo di raccolto ottenuto stabilendo la perdita secondo le produzioni storiche pregresse. La lunga disamina operata dai periti non conveniva però con le indicazioni elaborate dagli appellanti giungendo a definire che ad incidere maggiormente sull’annata agraria fosse stata, ancor più che l’azione del mugnaio, la prolungata siccità che aveva privato le colture della necessaria irrigazione.
L’accertamento di una responsabilità certa e diretta a carico del mulino di Acqualunga appariva inoltre difficile da dimostrare stante le complesse dinamiche che insistevano nella regolazione del flusso delle acque fra due località poste a considerevole distanza.
La gestione del mulino conosceva una vivace e prosperosa attività fino alla metà del secolo scorso; nel 1955 la struttura risultava già in disuso a causa della concorrenza degli impianti dotati di supporti elettrici in grado di garantire una maggior continuità operativa con rese maggiori. Fra gli ultimi gestori si segnalavano le famiglie Ferraroni e Volpi; d’allora la grande ruota arrestava il suo secolare movimento ed iniziava il lento ma inesorabile declino.

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