Cultura

1908, la terra trema sullo Stretto
Cremona si muove per gli aiuti

di Fabrizio Superti

Erano le 5.20 del 28 dicembre (lunedì) 1908 quando i sismografi collocati presso l’Osservatorio di Padre Alfani di Firenze, uno dei centri meglio attrezzati in materia, iniziavano ad oscillare in modo frenetico tanto da uscire dai tracciati generalmente impiegati. I rilievi registrati evidenziavano in maniera inequivocabile che un fenomeno di portata eccezionale aveva interessato un territorio non troppo distante dal punto di controllo.

Un evento che sconvolse e coinvolse tutta l’Italia nella gara della solidarietà a cui non venne meno anche Cremona, sia nelle sue articolazioni pubbliche che private, e che contribuì seppure nella sua drammaticità ad avvicinare popolazioni che fino ad allora si erano conosciute poco o per nulla.

Il fenomeno osservato corrispondeva ad un terremoto di punto 7.3 della scala Richter che aveva scaricato tutta la sua potenza distruttrice sulle contrapposte sponde dello stretto di Messina. Alla forza devastante della terra si assommava l’effetto di un imponente maremoto che scatenava delle onde alte anche dodici metri contro le località affacciate sul mare; al termine di tale doppia sventura un silenzio irreale calava sulle zone così duramente colpite.

Un territorio, quello posto fra la Calabria e la Sicilia, fra i più tormentati al mondo da eventi tellurici di particolare rilevanza; già nel febbraio del 1783 un fenomeno sismico di considerevole importanza aveva interessato il comparto dello Stretto ma il numero delle vittime era risultato contenuto in quanto i residenti, essendo l’ora di pranzo, avevano avuto modo di porsi al riparo dai crolli e dalle onde.

I due comparti che si affacciavano sullo Stretto si erano, tra l’altro, da poco ripresi dal terremoto del settembre del 1905 che aveva provocato significativi danneggiamenti in tante borgate della zona.

Quel tragico mattino di dicembre tutte le forze della natura si combinavano dando origine ad una “tempesta perfetta” in grado di metter in ginocchio centinaia di migliaia di residenti; oltre al sisma ed al maremoto si sviluppavano, infatti, una serie infinita di incendi ed esplosioni che finivano per rendere ancor più complicate le successive operazioni di soccorso.

 

IL DIFFONDERSI DELL’ALLARME – Mentre dalle altre regioni meridionali giungevano comunicazioni portanti notizie rassicuranti circa lo stato dei luoghi, dalla sponda calabra le notizie giungevano a stento e assai frammentate; al Ministero degli Interni perveniva, inviato dal prefetto di Catanzaro, un telegramma attraverso cui si comunicava l’avvenuta forte scossa di terremoto in almeno sette comuni della provincia. Il telegramma, giunto in mattinata e redatto in maniera frettolosa, non forniva indicazioni dettagliate circa l’eventuale presenza di vittime o feriti.

In serata gli aggiornamenti iniziavano a profilare l’entità del disastro: il paese di Bagnara, popolato da circa 11.000 abitanti, risultava completamente distrutto. Nella giornata del 28 in realtà le istituzioni centrali non ebbero l’esatta percezione delle proporzioni della catastrofe occorsa; il verificarsi di un simile fenomeno non
trovava nell’immediato un’adeguata risposta.

La città di Messina, forse la più colpita dall’evento, risultava di fatto annientata specie nella parte prospiciente al mare. Di tutti i palazzi e gli edifici che ospitavano le autorità civili, religiose e militari posti sul lungomare non rimanevano che spettrali mura diroccate; dalle prime voci si davano per periti sia il vescovo che il questore della città.

Il terremoto aveva in sostanza privato la città di quelle figure cui sarebbe stato demandato il compito di organizzare i soccorsi ai feriti ed ai superstiti. La parte alta della città, costellata da abitazioni di scarso valore ed abitata dalle classi più povere, aveva subito meno danni rispetto alle prestigiose strutture poste lungo il mare in cui risiedevano le classi dirigenti. La stessa caserma che ospitava un numero cospicuo di militari era
crollata per intero travolgendo le truppe alloggiate in gran parte provenienti dalla città di Mantova.

Le prime stime approssimative relative alla città di Messina indicavano un numero di 80.000 vittime rispetto a 140.000 residenti; un numero ancora in itinere vista l’impossibilità di stilare elenchi certi dei sopravvissuti. Il deputato siciliano De-Felice inviava un disperato telegramma al Presidente del Consiglio Giolitti evidenziando che Messina era completamente distrutta e rasa al suolo e che il disastro era superiore a qualunque immaginazione.

I PRIMI SOCCORSI – Curiosamente i primi a portare soccorso alla città di Messina erano i marinai russi della nave “Amiral Makaroff” che, in rada nel porto di Augusta, si mobilitavano per raggiungere quanto prima  la località terremotata. La visione che li attendeva all’arrivo risultava agghiacciante; i feriti che invocavano soccorso, congiunti che imploravano aiuto per estrarre dalle rovine i loro parenti, gente impazzita che invocava i nomi dei propri cari scomparsi. Con le poche forze a disposizione i soldati russi, assurti poi alla nomea di eroi, trasferivano a bordo i feriti che riuscivano a rintracciare in città per trasferirli in un luogo idoneo a prestare loro le prime cure.

Il diffondersi della notizia della sciagura occorsa produceva una meritoria azione di solidarietà da parte di tante nazioni europee e non solo pronte ad inviare navi ed aiuti in soccorso alle popolazioni terremotate.

La modalità con cui si approntava l’intervento di soccorso finiva per scatenare una ridda di polemiche ed accuse rivolte, in particolare, al Governo centrale accusato, da più parti, di essersi mosso in ritardo e senza un piano organizzato tale da fronteggiare un evento di simile portata. Gli aiuti si muovevano senza una regia di comando ma venivano spesso affidati alla volontà di singoli o gruppi la cui azione risultava impari rispetto alla necessità.

L’IMPEGNO DEI MONARCHI – Nella giornata del 29 il Re con la consorte si imbarcavano per raggiungere la città di Messina; la presenza e l’esempio fornito dai sovrani riscattava ed in parte copriva le deficienze espresse dalla macchina statale. L’abnegazione con cui la regina si poneva al servizio dei feriti e bisognosi di soccorso rappresentava un esempio di particolare valore per tutti coloro che erano impegnati in quei giorni.

La regina Elena aiuta i terremotati (www.lecodelsud.it)

Superata la fase dell’improvvisazione si iniziava a pianificare gli interventi da effettuare; la città di Messina veniva, di fatto, militarizzata con la ripartizione in quattro zone affidate alla gestione ed al controllo di ufficiali superiori. Il grosso centro abitato risultava circondato da un cordone di militari che filtravano tanto gli accessi dei soccorsi che l’ordine pubblico. Nei giorni susseguenti al terremoto in tanti, approfittando del vuoto di potere o spinti dalla necessità, compivano razzie nelle case diroccate alla ricerca di viveri o beni preziosi; il silenzio che gravava era a volte rotto dal crepitio delle scariche indirizzate verso chi si dedicava al saccheggio: l’ordine era di sparare a vista contro chiunque venisse colto in flagranza di reato.

Alle squadre impegnate nel recupero dei sopravvissuti ancora imprigionati sotto le macerie si affiancava il lavoro di supporto a coloro che erano scampati al terremoto ma risultavano privi di ogni forma di sussistenza; la fuga improvvisa nel cuore della notte aveva impedito di recuperare nulla dalle abitazioni per cui gran parte dei civili si trovava in condizioni di estrema difficoltà; privi di abiti adeguati alla stagione, sotto una pioggia insistente e senza un riparo sicuro dove trovare ricovero.

A questa massa di disperati urgeva fornire sussidi temporanei in grado di superare la fase emergenziale; le necessità principali erano riferite al recupero di legname per costruire baracche e  di generi di abbigliamento per fronteggiare i rigori della stagione.

Dalle vicine città dell’isola giungevano medici e personale di supporto cui si affiancavano un centinaio di addetti sanitari provenienti dalla Scuola di Sanità di Firenze ed altri dalle fila dell’esercito. A loro venivano affidati i numerosi feriti cui prestare le prime cure per poi esser convogliati, tramite nave, verso le strutture ospedaliere di tutto il meridione.

Ai prefetti si comunicava di sospendere o impedire la partenza di privati intenzionati a raggiungere le località danneggiate; in quel frangente la presenza, seppur lodevole, di persone non coordinate poteva risultare di maggior danno che utilità.

Dopo alcuni giorni iniziava a manifestarsi il pericolo relativo allo sviluppo di epidemie provocate dai corpi ancora sepolti sotto le macerie; le operazioni di recupero dei cadaveri quanto dei sopravvissuti proseguivano a rilento ostacolate dall’inclemenza del tempo, dal timore di crolli e dalle esplosioni provocate dalle fughe del gas. Per ovviare a tale situazione, conclamata dal fetore che aleggiava in città, si decideva di stendere sulle abitazioni terremotate una ingente quantità di calce viva sospendendo in tal modo la ricerca di eventuali scampati alla furia della terra.

LA SITUAZIONE IN CALABRIA – Sulla sponda opposta la situazione appariva altrettanto compromessa; dalle primi stime si riteneva  che un terzo della popolazione residente a Reggio Calabria avesse perso la vita (circa 15.000 morti).
Oltre che al capoluogo si stimavano interessate diverse località poste sia sul mare che all’interno;  sulla sponda calabra le operazioni di soccorso risultavano ancor più complesse a causa di una morfologia dei luoghi che rendeva difficile l’approdo a sperduti borghi arroccati ed isolati per frane o smottamenti. La stessa Reggio doveva rimanere per quasi due giorni completamente isolata tanto che i primi ad accorrere dalla località di Lazzaro erano i militari guidati dal generale Mazzittelli giunti nella serata del 29 dicembre.

Lo spettacolo anche in questo caso raccontava di disperati che vagavano alla ricerca di cibo ed acqua dopo una notte trascorsa all’addiaccio sotto una pioggia battente. La forza delle onde aveva travolto le rovine trascinando cadaveri in ogni luogo; ne giacevano ammassati lungo le strade, sui binari della ferrovia e persino sulle fronde delle piante. Anche in questi territori si segnalavano episodi di coraggio e viltà, di altruismo e di bieco sciacallaggio. Bande di malfattori saccheggiavano magazzini e case private arrivando persino a mutilare i cadaveri per asportare i monili che indossavano.

Mons. Giuseppe Morabito

Una voce autorevole si levava dal vescovo di Mileto, mons. Giuseppe Morabito, il quale si poneva come guida non solo spirituale della sua gente. Anche le strutture della sua diocesi risultavano completamente manomesse ed impraticabili al culto. A suo giudizio le modalità di ricostruzione avvenute dopo il terremoto erano state compiute in modo tale da preparare e spianare la distruzione del terremoto successivo. Il suo augurio era che non si ripetessero le malversazioni compiute in seguito al precedente sisma che avevano prodotto vasto malcontento fra le popolazioni più povere.
Le poche scorte di pane portate dai soccorritori venivano contese dai tanti che imploravano un minimo di sostentamento.

TERREMOTO COME PUNIZIONE DIVINA – La catastrofe avvenuta veniva commentata ed interpretata nelle modalità più variegate; l’intervento del vescovo Paolo Origo, a capo della diocesi mantovana dal 1895, lasciava trasparire  come l’evento naturale in realtà potesse anche celare una sorta di avvertimento proveniente dal Cielo.

Così infatti si esprimeva: “Sì, il flagello che ha colpito la Calabria e la Sicilia, come tanti altri deplorevoli avvenimenti di questi ultimi tempi sono avvisi che il Cielo e forse prodromi di altre più gravi calamità, che il Signore ci minaccia per la nostra condotta. L’uso della bestemmia, peccato dei demoni, il mancato rispetto della domenica, ormai violato per il lavoro o per pubblici divertimenti, la corruzione dei costumi, il dialogare dei delitti, la stampa che cerca in ogni modo di allontanare dalla fede e la lotta condotta contro la Chiesa”.

LE PRIME REAZIONI A CREMONA – Il 29 dicembre i cittadini di Cremona iniziavano a percepire le prime avvisaglie di quanto accaduto nel lembo estremo dell’Italia; l’angoscia si accentuava anche per diversi cittadini cremonesi che si erano trasferiti in quelle zone per lavoro o per incarichi vari (il prof. Annibale Salomoni, Annibale Ghisotti, il capitano Severino con moglie e il capitano di marina Ambrogio Bonati). Fortunatamente gran parte della pattuglia di cremonesi presenti al momento del terremoto riusciva ben presto a confermare di essere scampata al disastro e di poter far ritorno alla città di origine.

La “febbre di notizie” in città risultava spasmodica; nei giorni susseguenti alla tragedia le vendite dei giornali si impennavano come raramente accadeva, tanto che in poche ore venivano volatilizzate 4.000 copie del Corriere della Sera, il foglio meglio attrezzato a fornire notizie e reportage dai luoghi sinistrati.

(segue)

 

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