Cremona 26 luglio '43: un marchese
a guidare la caccia a Farinacci
Nella nuova ricerca dello storico Fabrizio Superti, i giorni convulsi in città all'indomani della caduta di Mussolini e la storia inedita del nobile Emanuele Martucci alla guida della rivolta contro il fascismo e i suoi uomini più rappresentativi in città
L’ANTEFATTO: LA SFIDUCIA DEL GRAN CONSIGLIO – Quando alle 2,40 del 25 luglio 1943 terminava la seduta del Gran Consiglio, un’epoca volgeva inesorabilmente a termine; dopo dieci ore di estenuante discussione quell’organismo, che non si riuniva dal 1939, poneva fine al ventennio fascista capeggiato da Benito Mussolini. A sorpresa, ma non troppo, l’ordine del giorno presentato dal gerarca Dino Grandi incontrava il favore della maggioranza del consesso e di fatto sfiduciava Mussolini. L’inatteso esito della riunione portava, nella stessa giornata, all’arresto del Duce e la nomina, da parte del Re, di un nuovo Esecutivo capeggiato dal Maresciallo Badoglio.
A tale situazione si era giunti anche in forza degli esiti negativi del conflitto in cui l’Italia risultava schierata a fianco dell’alleato tedesco. Lo sbarco Alleato in Sicilia, violando il “sacro suolo”, ed il terribile bombardamento che si era abbattuto sulla capitale avevano scosso l’opinione pubblica italiana sempre meno convinta dell’esito favorevole della guerra. La difficile situazione induceva anche tanti esponenti del fascismo a prendere le distanze da un indirizzo politico ritenuto ormai prossimo alla catastrofe. Anche negli ambienti monarchici, militari ed ecclesiastici si lavorava da tempo per scindere il destino del Paese dalla presenza di Mussolini.
QUALE DESTINO PER IL RAS DI CREMONA? – Il pronunciamento del Gran Consiglio aveva visto Roberto Farinacci, indiscusso ras di Cremona da oltre un ventennio, collocato su una posizione di contrarietà a quanto espresso dalla maggioranza; in quella drammatica seduta Farinacci aveva proposto un proprio ordine del giorno poi, di fatto, superato dal documento presentato dal Grandi. Caduto il Governo in carica, il ras di Cremona si rifugiava nell’ambasciata tedesca ed in seguito, abbigliato con una divisa da pilota della Luftwaffe, trasferito in Germania dove, il 27 luglio, incontrava il Fuhrer.
Anche a Cremona, come nel resto d’Italia, la mattina del 26 luglio costituiva un risveglio carico di speranze ma anche gravido di timori; l’inattesa caduta del Regime aveva colto di sorpresa la maggioranza della popolazione. Quel lunedì di fine luglio gli abitanti di Cremona, quasi increduli ed attoniti per i recenti avvenimenti, vivevano una strana condizione fra una ricerca di normalità e un’atmosfera di evidente tensione emotiva.
In varie parti della città si formavano piccoli gruppetti di dimostranti che ben presto confluivano in un unico corteo che si indirizzava alla ricerca di luoghi e personaggi rappresentativi del decaduto ordine politico. Dopo vent’anni di assoluto dominio fascista sulla città una strana brezza di libertà e rivincita pervadeva gli animi dei numerosi dimostranti. Un magma composito di appartenenze politiche e sociali accomunate dal desiderio di assaporare una nuova stagione di libera partecipazione alla vita pubblica.
DA FERVENTE FASCISTA AD OPPOSITORE: IL MARCHESE MARTUCCI – Fra i più accesi partecipanti alle manifestazioni si distingueva la figura del marchese Emanuele Martucci, romano d’origine, che ben presto assumeva la guida del corteo che si dipanava per le vie cittadine; il nobile romano, che precedeva gli astanti brandendo una sorta di sciabola, rappresentava il prototipo dell’italiano che dopo aver aderito con convinzione al fascismo se n’era poi progressivamente allontanato fino ad avversarlo apertamente.
Classe 1889, volontario durante la Grande Guerra, il Martucci aderiva fin dal 1920 al fascismo assumendo anche incarichi all’interno delle gerarchie del partito. Nel 1924 convolava a nozze con Sofia Mina-Bolzesi, erede di una fra le più prestigiose famiglie della borghesia cittadina; dopo qualche anno trascorso nella frazione di S. Felice nel 1931 i due coniugi, allietati dalla nascita del figlio Michelangelo, si trasferivano nella stupenda casa padronale della cascina di S. Maria del Campo, proprietà che la famiglia della sposa possedeva fin dal 1799.
Dai rapporti della polizia fascista si annotava come il Martucci, ancor prima del 25 luglio, avesse sviluppato un sentimento di ostilità verso il fascismo esprimendo palesi critiche verso l’operato del partito. Il personaggio pare godesse di altolocate protezioni da parte della massoneria e di rappresentanti della burocrazia ministeriale; il dottor Giovanbattista Laura, prefetto di Cremona fra il settembre del ’42 e il febbraio del ’43, era notoriamente di casa presso la residenza dei Martucci dove si tenevano, secondo gli informatori, raffinate e dispendiose feste in spregio alle disposizioni in vigore e al clima di guerra.
I TEDESCHI A S.MARIA DEL CAMPO – Dall’inizio di luglio del ’43 il Comando Aereo tedesco requisiva una parte della villa di S.Maria per insediarvi i propri uffici ed alloggiamenti; ai proprietari rimanevano a disposizione i locali del primo piano mentre il resto dell’edificio veniva occupato dalle truppe tedesche. Gli ufficiali presenti lamentavano un atteggiamento di aperta contrarietà da parte della proprietà attraverso continue contestazioni sull’impiego degli spazi.
Dai rapporti di polizia redatti a carico del Martucci si rimarcava come in occasione della giornata del 26 luglio lo stesso …”fu promotore e capo dei comizi comunisti ed alla testa della colonna di facinorosi penetrò nelle sedi di partito, dei gruppi rionali e abitazioni private, compiendo atti di vandalismo, arringando la folla già ebbra di odio e di vendetta, incitandola alla rivolta e alla devastazione delle opere ed emblemi del fascismo. Tra l’altro fece asportare dallo studio fotografico Fazioli le fotografie del Duce e di Hitler che, alla testa dei dimostranti, portava in trofeo per le vie cittadine infilzate su di una lancia.”
Ad affiancare il Martucci alla testa del corteo compariva il cartolaio Giuseppe Lorenzelli, figura mite e mai esposta politicamente il quale in seguito dichiarerà di esser stato condizionato dal marchese, suo frequente cliente, attraverso una reiterata opera di denigrazione del Regime in carica.
Durante il breve periodo badogliano il marchese simpatizzava e stringeva rapporti personali con il generale Florio, comandante della Piazza di Piacenza, inviato dal nuovo Capo del Governo a Cremona per “normalizzare” la città del ras Farinacci; in accordo con i comandi militari italiani aveva acconsentito a nascondere 25 bersaglieri nella sua residenza pronti, se necessario, ad arrestare gli ufficiali tedeschi presenti.
LA FUGA VERSO ROMA – All’indomani dell’otto settembre alla famiglia Martucci appariva ben evidente che, in tempi brevi, avrebbe dovuto fronteggiare le ritorsioni da parte dei tedeschi e dei fascisti ritornati al potere. I due coniugi ed il figlio abbandonavano pertanto il loro cascinale ed iniziavano una frenetica ricerca di ricoveri provvisori nel circondario cremonese; la situazione per i fuggiaschi era resa ancor più complessa per il riacutizzarsi di una patologia che affliggeva il marchese fin dai tempi del suo impegno bellico.
Dopo alcuni giorni di peregrinazione la famiglia si divideva: la moglie faceva ritorno al cascinale di proprietà mentre il marito ed il figlio intraprendevano un lungo viaggio, in bicicletta, per cercare di trovare rifugio presso la famiglia Martucci a Roma (in via Venezia 15). Un percorso assai accidentato in giornate convulse in cui il Paese era precipitato in una sorta di sbandamento collettivo.
Nel frattempo nei confronti dei coniugi Martucci veniva spiccato un mandato di cattura; ad emetterlo il Comando dell’Aviazione germanica di Cremona che ravvisava nella condotta dei due reiterati atti di sabotaggio contro le Forze armate del Reich nonché azioni di propaganda antifascista. La Sofia Mina-Bolzesi già nel mese di settembre risultava pertanto associata alle locali carceri in attesa di comparire di fronte al Tribunale Straordinario.
Il marchese Martucci incappava invece nei controlli operati dall’Ufficio politico di Firenze e, sottoposto a fermo, veniva verso la metà di dicembre trasferito a Cremona.
Durante il suo interrogatorio negava gli addebiti che gli venivano portati asserendo che la sua presenza in realtà aveva evitato che le dimostrazioni degenerassero in atti di violenza ben più gravi; a sua discolpa portava anche il fatto che tutto quanto asportato nelle sedi fasciste di Stagno Lombardo, S.Felice e Bagnara fosse stato consegnato alle varie autorità presenti in loco.
La narrazione esposta dal marchese nel corso della sua deposizione contrastava con quanto asserito da alcuni personaggi che nella giornata del 26 luglio erano risultati oggetto degli attacchi del corteo.
Il 17 gennaio del ’44 presso gli uffici della Guardia Nazionale Repubblicana, comando della 17 legione, avvenivano infatti, a breve distanza, le deposizioni rilasciate dagli avvocati Franco Tortini e Tullo Bellomi; nelle dichiarazioni proferite in presenza del noto e temuto Angelo Milanesi, la ricostruzione di quanto avvenne nella giornata susseguente l’arresto di Mussolini.
Il Tortini, originario di Gussola ma ormai da tempo residente a Cremona, rappresentava il prototipo del fascista proveniente dalle fila degli ex combattenti della Grande Guerra. Tornato segnato da ferite riportate durante i prolungati combattimenti si era avvicinato al nascente movimento fascista pur mantenendo un profilo non sempre perfettamente allineato con l’orientamento prevalente.
MARTUCCI A CAPO DEGLI ANTIFASCISTI: LE TESTIMONIANZE – Alla consolidata attività forense il Tortini affiancava, nell’estate del ’43, l’incarico di responsabile dell’Unione dei Professionisti ed Artisti; quel pomeriggio del 26 luglio, mentre era affacciato alla finestra della sua abitazione, posta in Corso Campi 2, assisteva all’arrivo di un corteo che risultava capeggiato dal marchese Martucci, residente presso la cascina S. Maria di Cremona. Quando il Martucci, che brandiva una sorta di vecchia sciabola, intravedeva la figura del Tortini incitava i presenti ad indirizzare ogni sorta di epiteti al suo cospetto. “Vigliacco, venduto, vieni giù che ti ammazziamo” erano fra le contumelie che proseguirono per circa dieci minuti finché l’arrivo delle Guardie poneva fine all’assembramento formatosi sotto le finestre in Corso Campi.
La violenta dimostrazione patita creava, a detta del Tortini, un forte turbamento in tutta la famiglia tanto che, in conseguenza di tale episodio, la figlia doveva essere sottoposta ad un prolungato ricovero ospedaliero.
La deposizione dell’avv. Tullo Bellomi ricostruiva in maniera molto dettagliata quanto occorso nella complessa giornata del 26 luglio; Bellomi rappresentava un personaggio assai ben introdotto nella ristretta cerchia di collaboratori vicini al ras cremonese. Pur essendo originario di Ostiano risiedeva, al tempo dei fatti, ormai da quasi quarant’anni nella città di Cremona; all’ombra del torrazzo espletava la propria attività forense sviluppando in contemporanea una proficua e consolidata azione di promozione culturale che, durante il periodo fascista, lo portava a ricoprire svariate cariche in capo a sodalizi culturali e associativi.
La sua passione per l’arte lo aveva portato ad acquisire il prestigioso palazzo Raimondi, sito in Corso Garibaldi, come residenza personale.
Essendo uno degli uomini più vicini a Farinacci era inevitabile che finisse per risultare esposto alle “attenzioni” dei dimostranti riunitisi in corteo il 26 luglio; quella giornata era iniziata con una telefonata, giunta all’alba, in cui uno sconosciuto, dall’accento non locale, gli riversava una sequela di epiteti poco lusinghieri. Alla luce poi dei fatti occorsi in seguito il Bellomi attribuiva al Martucci la paternità del gesto.
In seguito uscito per recarsi in ufficio, posto in via Stradivari al n° 1, ricordava come “… dalle finestre del mio studio seguii in via Stradivari i vari gruppi e capannelli che si formavano, fra questi notai fra i più agitati il detto Martucci. Ritornato a casa verso mezzogiorno mentre stavo raccontando a mia moglie un incidente avuto sul Corso Garibaldi con l’avvocato Frittoli, sentii un gran vociare in cortile; mi affacciai alla loggia interna e vidi una folla di gente, circa un centinaio che si dirigevano verso lo scalone del mio appartamento.
Accorsi senz’altro alla porta d’ingresso e attraverso i vetri vidi un individuo, che al momento non riconobbi ma che era il cartolaio Lorenzelli, che tentava di aprire premendo sulla maniglia della porta. Aprii e mi affacciai sul pianerottolo inseguito da mia moglie e chiesi cosa volessero. Qualcuno, che non ricordo chi fosse, disse: vogliamo Farinacci, che è nascosto in casa sua. Ai miei dinieghi, ai quali aggiunsi che l’ecc. Farinacci era a Roma, come tutti i giornali avevano annunciato, si rispose che era venuto a Cremona, e che era stato visto in stazione e che l’avevano visto venire a casa mia.”
Le reiterate assicurazioni espresse dal Bellomi alla fine sortivano l’effetto sperato e la folla, seppur ancora veemente nella collera lentamente scemava verso altri lidi; il Martucci non desisteva dall’esprimere la sua contrarietà al sodale di Farinacci invitandolo a darsi alla fuga per la vergogna.
In merito alla condotta del Martucci il Bellomi ricordava come trovandosi in questura l’11 settembre del ’43, per far liberare la segretaria di Farinacci e gli altri fascisti ancora detenuti, si fosse incrociato con il capitano tedesco Westerhult, all’epoca comandante della Piazza di Cremona prima di essere trasferito a Schio, il quale ordinava al questore di provvedere all’arresto del marchese Martucci e della consorte. L’ufficiale tedesco rimarcava il suo risentimento nei confronti del Martucci per il trattamento riservato agli ufficiali tedeschi che occupavano parte della sua villa padronale. “ Se lo arrestavo io-dichiarava il Westerhult- l’avrei fatto fucilare immediatamente per il modo come ci ha trattati.”
Nel maggio del ’44, casualmente a pochi giorni di distanza, al Tribunale Straordinario giungevano due rapporti inviati dalle sezioni del partito fascista di Bonemerse e Pieve d’Olmi; in entrambe le missive si segnalava l’azione del Martucci che, a capo di un gruppo di giovinastri, si era portato nei due paesi compiendo azioni contro le sedi del partito oggetto di devastazioni e sottrazioni di documenti e materiale di ordinario utilizzo. Il commissario federale di Bonemerse, Ernesto Guerreschi, sottolineava come l’attività antifascista esercitata in quei giorni avesse appunto preso di mira tanto i luoghi del fascismo quanto persino il monumento dei caduti; a Pieve d’Olmi il commissario Eugenio Bragadini lamentava l’irruzione di un gruppo di giovani nella sede del municipio dove veniva scardinato il fascio littorio e mandata in frantumi la targa commemorativa in ricordo di Sigfrido Priori, uno dei più celebrati martiri del fascismo cremonese. I disordini non avevano comunque comportato azioni di violenza nei confronti degli esponenti più esposti del decaduto regime fascista.
La situazione nei paesi risultava in sostanza mantenersi in una sorta di attendismo prodotto da avvenimenti tanto improvvisi da rendere complessa una reazione organizzata.
Fabrizio Superti