Cronaca

Il pm: "Non prese il Covid in ufficio
ma a casa". Poliziotto a processo

La caserma della polizia di via Massarotti (foto Sessa)

Tentata truffa allo Stato. E’ l’accusa contestata dalla procura ad un poliziotto della Questura di Cremona, finito a processo per fatti che sarebbero avvenuti due anni fa, periodo della seconda ondata Covid. L’imputato, sindacalista, avrebbe cercato di ottenere il riconoscimento della causa di servizio, che ha un risvolto economico e quindi un indennizzo, attestando falsamente di essere stato contagiato sul lavoro, quando invece, secondo l’accusa, avrebbe contratto il Covid in famiglia, e in particolare dalla figlia.

Il 25 agosto del 2021, il poliziotto aveva presentato domanda all’ufficio competente, ma la dirigente non l’aveva firmata, in quanto il modulo era già stato compilato dal diretto interessato. Procedura non corretta, per cui tutto era finito sulla scrivania dell’allora questore Carla Melloni, la quale aveva avviato accertamenti amministrativi, e poi aveva incaricato gli agenti della Squadra Mobile di svolgere le opportune indagini. Al termine delle verifiche, come ha ricordato oggi in aula il dirigente della Mobile Marco Masia, erano emerse alcune incongruenze nelle date.

L’imputato sostiene di aver preso il Covid da una collega che aveva incontrato nella caserma di via Massarotti dove nel pomeriggio del 26 febbraio del 2021 era stato convocato nell’ufficio del personale per apporre una firma su una notifica urgente. Dai primi di febbraio lui era in malattia per altri motivi, quindi il pomeriggio del 26 era stato l’unico momento in cui era venuto in contatto con la Polizia di Stato in quel periodo.

Il 10 marzo era risultato positivo al Covid. Sua figlia, invece, i sintomi li avrebbe accusati il 3 marzo, per poi scoprire, il 6 marzo con il tampone, di essere positiva. Secondo la documentazione clinica acquisita da Ats e secondo la catena di contagio tracciata, il paziente “zero” sarebbe stata proprio la figlia, che a sua volta aveva contagiato prima il papà e poi la mamma. Nella causa di servizio, invece, l’imputato aveva dichiarato di aver avuto lui per primo i sintomi il 7 marzo, seguito, 24 ore dopo, dalla figlia.

Oggi in aula la vice sovrintendente dell’ufficio del personale che avrebbe contagiato il collega, ha sostenuto di aver accusato i primi sintomi il 28 febbraio. Il 2 marzo successivo il tampone aveva dato esito positivo al Covid. La testimone, ora in pensione, ha ricordato di aver salutato l’imputato e di aver scambiato due parole con lui, ma a distanza di 4 o 5 metri e che lei indossava la mascherina. “Ero impaurita dal Covid. Non ricordo se anche lui avesse la mascherina, ma era d’obbligo indossarla”.

In udienza è stata sentita anche la responsabile dell’ufficio personale. Era stata lei a chiedere all’imputato di passare per la notifica. “In quel periodo”, ha raccontato, “c’erano tantissimi contagi e c’era un preciso protocollo da seguire per il Covid, con mascherine e dispositivi. Quel pomeriggio, quando sono andata a fare le fotocopie, ho visto l’imputato e la collega scambiarsi qualche parola a distanza. Saranno stati lì un paio di minuti. Entrambi avevano la mascherina. La collega, poi, so che aveva il terrore del contagio”.

Si torna in aula con l’ultimo testimone del pm, l’esame dell’imputato e i testimoni della difesa il prossimo 6 dicembre.

Sara Pizzorni

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