Cronaca

Quando i migranti eravamo noi
Australia amara per i cremonesi

In questa nuova ricerca d'archivio di Fabrizio Superti, tante le analogie tra i migranti in arrivo in Italia e quello che succedeva negli anni Cinquanta nell'Italia stremata del dopoguerra. Dagli accordi tra Stati per cercare di fissare flussi migratori, ai campi di internamento; dall'ostilità verso i nuovi arrivati, alle difficoltà linguistiche. Di diverso c'era solo la difficoltà a rimpatriare dopo che l'esperienza si era rivelata impossibile. Le testimonianze inedite dei cremonesi.

di Fabrizio Superti

 

L’EMIGRAZIONE ITALIANA NEL DOPOGUERRA.  Alla fine del secondo conflitto mondiale l’Italia si trovava ad affrontare delicate sfide in merito alla ricostruzione di un Paese uscito lacerato e devastato da anni di guerra; fra le varie emergenze presenti si evidenziava una sovrabbondanza di manodopera che rendeva difficile reperire una stabile occupazione ad ampi strati della popolazione. Tale situazione provocava forti tensioni sociali che finivano per alimentare un senso di sfiducia verso le neonate istituzioni post-fasciste.

Le stime governative ritenevano che per alleggerire l’asfittico mercato del lavoro fosse necessario favorire l’emigrazione di almeno 1.400.000 italiani verso Paesi esteri; in effetti, a partire già dal 1946, un notevole flusso di dipartite si registravano all’indirizzo dell’Argentina, del Venezuela e del Canada; l’approdo verso gli Stati Uniti, meta assai ambita all’epoca, rimaneva invece ancora frenato da una legislazione, emanata nel 1924, che filtrava in modo mirato l’arrivo di emigranti in
base a criteri molto severi e selettivi.
Fra le varie ipotesi poste in campo si profilava di indirizzare una quota di manodopera verso una realtà, come quella australiana, assai lontana ma bisognosa di forza lavoro da impiegare in vari settori della propria economia. Il ripristino delle attività diplomatiche fra i due paesi, contrapposti durante il conflitto, consentiva di prospettare un piano che consentisse un flusso regolato di italiani verso l’Australia.

NON PARLI INGLESE? NON SEI GRADITO.  Le autorità australiane, in realtà, erano maggiormente propense a favorire l’arrivo di emigranti provenienti da paesi di lingua madre o comunque di religione protestante (Olanda, Germania); la carenza di flussi da quelle nazioni li obbligava a rivolgere l’attenzione verso altre realtà, quali ad esempio Italia e Grecia, ritenute meno adeguate ma comunque capaci di garantire un numero adeguato di lavoratori disponibili.

Lo scoglio della lingua risultava un ostacolo non indifferente per gli emigrati provenienti dall’area mediterranea; solo il 2% degli italiani selezionati per la via australiana dimostrava infatti una minima dimestichezza con la lingua locale. La religione cattolica e l’appartenenza a partiti di sinistra costituivano inoltre altri elementi di diffidenza che non agevolavano l’inserimento nella vita sociale del lontano paese.

FLUSSI MIGRATORI ASSISTITI. Dopo una lunga gestazione e complesse trattative il 29 marzo 1951 l’Italia e l’Australia stipulavano l’accordo che regolava il flusso migratorio “assistito” fra i due paesi; le clausole approvate prevedevano un transito migratorio stimato attorno alle 15.000/20.000 unità all’anno da verificare poi negli anni successivi. Ai lavoratori italiani in teoria veniva garantito uno status economico pari alle maestranze locali nonché facilitazioni nel reperire adeguati alloggi; non era invece previsto
l’inserimento nel sistema pensionistico in quanto riservato a chi risiedeva da almeno vent’anni in Australia.

L’intesa raggiunta fra i due paesi risultava frutto di una elaborata e complessa valutazione resasi necessaria per definire i numerosi aspetti a lungo dibattuti; le difficoltà maggiori si riscontravano, ad esempio, in merito a chi spettasse il costo del trasferimento degli emigranti e le modalità con cui effettuarlo. Le autorità australiane predisposero inoltre una griglia di accesso che privilegiava i celibi dai 18 ai 35 anni o gli ammogliati senza figli. Gli stessi dovevano sottoporsi a severe visite mediche, effettuate da personale australiano, nelle sole sedi di Roma e Genova; qualora un emigrante avesse inteso rientrare entro i due anni dalla partenza avrebbe dovuto rimborsare, prima di lasciare il paese, i costi sostenuti dalle due amministrazioni statali.

Una clausola, quest’ultima, che finirà per provocare pesanti disagi a tanti emigrati che si troveranno senza una occupazione e le disponibilità per rientrare in Italia. Nel momento in cui si avviava il trasferimento dei primi gruppi di emigranti, l’Australia veniva interessata da una profonda crisi economica che finiva per investire tanto i comparti agricolo e manifatturiero quanto la finanza pubblica; l’improvviso rallentamento dell’economia nazionale comportava, a cascata, anche una minor
richiesta di manodopera estera presente sul territorio. Ad accentuare la situazione già complessa si sommava, nel 1952, l’arrivo massiccio di nuovi emigranti secondo gli accordi stipulati in precedenza.

IL CENTRO DI INTERNAMENTO DI BONEGILLA La doppia combinazione finiva ben presto per rendere assai difficile la permanenza degli stranieri che, nonostante le promesse garantite prima della partenza, finivano per esser collocati per mesi in campi di “accoglienza” o alla ricerca di sopravvivenza girovagando per i vari centri abitati.
Gli italiani faticavano parecchio anche ad adattarsi alle difficili condizioni climatiche che caratterizzavano quei luoghi dove venivano ospitati; baracche in lamiera che risultavano gelide nel rigido inverno australiano quanto roventi nelle torride estati. Gran parte degli italiani venivano dirottati presso il centro di internamento collocato a Bonegilla, una località posta nello Stato del Victoria assai isolata dai principali centri abitati (tre ore di treno per giungere a Melbourne).

Emigrati italiani a Bonegilla

L’infelice collocazione logistica del campo di detenzione, dove transitarono circa 300.000 emigranti, comportava grosse difficoltà nel reperire una collocazione lavorativa in una zona scarsamente abitata e sviluppata.
Il clima di sfiducia che si era venuto a creare fra gli emigranti italiani non tardava a sfociare in manifestazioni di protesta dal carattere sempre più accentuato; nel luglio del ’52, a Bonegilla, si verificava infatti una dimostrazione di migliaia di italiani che davano vita a quella che passerà alla storia come la “spaghetti riot” (la rivolta degli spaghetti), una vera e propria rivolta collettiva che richiese l’intervento massiccio dell’esercito con l’ausilio di mezzi blindati. La sollevazione pare
esser nata anche dal rifiuto del cibo che veniva lanciato contro i muri per sottolinearne la pessima preparazione.

L’esasperazione finiva anche per piegare i soggetti più fragili che, in alcuni casi, si inducevano al suicidio; in diverse occasioni gli emigranti, riottosi a sbarcare stante le precarie condizioni prospettate, venivano fatti scendere a forza dalle navi dalle autorità di polizia. L’emigrazione italiana tanto spontanea quanto assistita vedeva la presenza massiccia di gruppi provenienti in specie da alcune regioni meridionali (Abruzzo e Calabria); il consolidarsi di colonie di emigrati provenienti dalle stesse aree geografiche rendeva spesso più agevole l’approccio con la nuova realtà di approdo.

I CREMONESI IN AUSTRALIA: TESTIMONIANZE. In ambito cremonese il fenomeno migratorio verso l’Australia si misurava con numeri molto più contenuti rendendo di fatto impossibile l’instaurarsi di situazioni di accoglienza condivisa per chi intendeva intraprendere quella avventura. I vari emigranti cremonesi non potevano pertanto contare, al loro arrivo, su una rete di supporto logistico e sociale in grado di accompagnarli al pieno inserimento in una società per tanti aspetti assai ostica da penetrare.

La nuova avventura lavorativa si doveva rivelare ben difforme dalle aspettative loro prospettate; ai parenti giungevano missive che rappresentavano una situazione di forte criticità in cui gli emigranti si stavano dibattendo.
Alla fine di marzo una delegazione di familiari di emigrati in Australia, accompagnata dal segretario della Camera del Lavoro Mario Bardelli, si recava dal prefetto per illustrare la grave situazione in cui si trovavano i loro congiunti al fine di sollecitare un intervento risolutivo da parte del Governo.
Le preoccupazioni espresse erano riferite tanto alla difficoltà di reperire un impiego quanto alla impossibilità di accedere a servizi assistenziali di tipo sanitario e sociale in caso di necessità; il perdurare di una situazione così precaria finiva inoltre per sfinire gli emigranti esposti spesso al dileggio e alla diffidenza della popolazione locale. I racconti esposti, espressi da famiglie residenti a Cremona e nel territorio provinciale (Grumello, Olmeneta etc) delineavano un quadro di
sofferenze senza speranza con congiunti costretti a sopravvivere di stenti e senza la possibilità di far rientro in Italia.

Un familiare residente in via Livrasco esponeva come il figlio, dopo mesi di reclusione in baracca, si arrabattasse in piccoli saltuari impieghi che non risultavano sufficienti per corrispondere ai costi di mantenimento. Lo stesso aveva partecipato alle manifestazioni di protesta organizzate dagli emigranti italiani definiti da un funzionario governativo australiano come “bastardi, gente senza civiltà”.

Un concittadino da poco rientrato dall’Australia portava la sua diretta esperienza …”sulla tragedia immane che là i nostri fratelli stanno vivendo in quel lontano Paese. Egli ha confermato che migliaia di italiani si trovano senza lavoro e senza speranza di trovarne, relegati in baracche inospitali, abbandonati da tutti, mentre attorno ad essi si esige sempre più alta una barriera di diffidenza e di scherno.”

“OVUNQUE MI SENTIVO UMILIARE”. Un’altra dettagliata testimonianza giungeva da Giovanni Cisarri, trentenne residente a Ripalta Guerrina, da poco rientrato dall’Australia dopo non poche traversie. La motivazione che l’aveva spinto a tentare un’avventura non scevra da rischi risiedeva nelle difficoltà economiche in cui si dipanava la sua numerosa famiglia. La poca terra di cui disponeva il nucleo famigliare non risultava più adeguata a garantire il sostentamento di ben otto fratelli che faticavano anche a collocarsi sul
mercato del lavoro locale.

Di fronte a tale situazione di forte disagio, l’espatrio finiva per rappresentare l’univa via di speranza rispetto ad una prospettiva che appariva senza soluzione. Il suo racconto ricalcava quello similare ai tanti che si erano illusi di poter costruire altrove ciò che gli era negato in Patria: “Sono partito da Venezia e sono arrivato il 7 giugno 1952 in Australia. Dopo due mesi di vita nel campo di concentramento di Bonegilla ho partecipato alla grande protesta di fine luglio insieme ad altri
4.000 emigrati che hanno dimostrato energicamente davanti alle sedi delle Autorità Australiane.
Quel giorno fu chiesto lavoro o rimpatrio. La manifestazione fu imponente. La pazienza degli emigrati era giunta al limite. A molti di noi fu dato lavoro per due mesi. Si trattava di estirpare erbacce e spianare il terreno per un vasto campo d’aviazione della R.A.F. Il lavoro ci era stato assicurato per due anni e firmammo tanto di contratto. Ma dopo due mesi, come ho detto, ci dissero di andarcene; lavoro non ce n’era più. Tornai nuovamente a Bonegilla.

Qui mi passavano due sterline e mezzo alla settimana quale sussidio, ma ne esigevano quattro e mezzo per il mantenimento.(..) Non ricordo quante petizioni ho firmato. Non ricordo quanti telegrammi abbiamo inviato al Governo italiano, chiedendo il suo intervento perché facesse cessare per noi quell’indicibile stato di cose. Nessuna risposta. Frattanto girovagavo per i rari paesi nelle vicinanze di Sidney, ma ovunque mi sentivo umiliare.
“Devo”, mi chiamavano gli australiani, che vuol dire schiavo. Era impossibile trovare lavoro. La mia tragedia è la tragedia di tutti. E pensare che le autorità australiane hanno la pretesa che noi emigrati abbiano a pagare loro 92 sterline per il viaggio di andata. (..) Ho fatto giorni di anticamera alla Legazione italiana prima di essere ricevuto.

Quando fui a colloquio col delegato consolare, un certo Dainelli, l’ho preso per il bavero e senza mezzi termini gli ho detto che se non mi mandava in Italia l’avrei buttato giù dal quinto piano. Ero giunto all’estremo della sopportazione. Mi fece un biglietto per un medico il quale a sua volta mi fece una dichiarazione secondo la quale io figuravo malato di stomaco. Il Lloyd Triestino mi fornì il biglietto per il viaggio di ritorno. A differenza di quello di andata questo, perché figuravo ammalato, mi costa 35.000 lire. Un giorno o l’altro verranno a chiedermi questi soldi. Naturalmente non ho nulla da dare in quanto disoccupato”.

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