PAF al via con Emanuele
Galesi: "La scrittura come cura"
Grande partecipazione alla presentazione del libro “Sei tu il figlio", organizzata dal PAF in collaborazione con l'Asst di Cremona. Al Centro Fumetto l’autore dialoga con il pubblico per affrontare il tema della sua relazione con il padre tossicodipendente
Scrivere per capire, parlare per curare le ferite del passato, senza abbandonare la speranza. Stamattina al Porte Aperte Festival si è tenuta la presentazione del libro “Sei tu il figlio”, scritto da Emanuele Galesi e scelto per affrontare il tema delle dipendenze e della cura attraverso la condivisione di esperienze e riflessioni in prima persona. Durante l’incontro moderato da Stefania Mattioli, responsabile Comunicazione e Relazioni esterne dell’Asst di Cremona, l’autore ha dialogato con Roberto Poli (direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’Asst di Cremona), per affrontare le tematiche trattate nel libro aprendo il confronto al pubblico presente nel cortile del Centro Fumetto “A.Pazienza”.
Tra i presenti Rosita Viola, assessore al Welfare, alle Politiche Sociali e della Fragilità de Comune di Cremona, Paola Mosa (direttore socio-sanitario dell’Asst di Cremona), Secondo Cogrossi (direttore della Psichiatria all’ospedale di Cremona), Roberto Pezone (responsabile delle strutture riabilitative della Psichiatria n.29)) e l’educatore Francesco Casali.
«Penso sia molto importante parlare oggi delle dipendenze e di farlo attraverso il libro di Galesi dove è il figlio ad accudire il padre tossicodipendente», afferma Paola Mosa. «Mi ha colpito e sorpreso ritrovare nel protagonista del romanzo gli stessi sentimenti e le stesse difficoltà dei genitori che hanno figli con problemi di dipendenza. Nonostante la lunga esperienza in questo settore, è un aspetto al quale non avevo pensato in questi termini. Ben vengano, quindi, iniziative come queste, utilissime per mettere in relazione gli operatori e gli utenti in modo positivo e creativo al di fuori degli spazi di cura abituali».
Il romanzo di Galesi intreccia la fiction ad elementi autobiografici. Racconta la pena e la vergogna provate verso la condizione del padre, “che puntualmente cercava di farsi fuori in qualsiasi modo”. Affronta il senso di colpa per averlo pensato “come un morto che non moriva”, per aver cercato di dissociarsi da una realtà troppo vicina e dolorosa, chiedendosi come guardare oltre la tossicodipendenza per ritrovare umanità e speranza. “Un tossico è ancora una persona inaffidabile, ma una persona, anche se è difficile vederla oltre la malattia”. Provare a ricostruirla attraverso le parole, oltre le etichette e gli stigmi, è la strada che Galesi prova a percorrere scrivendo un libro privo di pietismi e sincero fino alla radice del sentimento che lo lega al padre, per ritrovare un punto di contatto nonostante il dolore e i silenzi.
«Per l’Asst di Cremona partecipare al PAF ha un significato profondo, perché la cura è cultura» ha sottolineato Stefania Mattioli, responsabile Comunicazione e Relazioni esterne. «Affrontare alcuni temi complicati come la salute mentale, la tossicodipendenza, la malattia attraverso i libri, la scrittura autobiografica, lo sguardo degli autori e il dialogo con il pubblico, offre a chi partecipa la possibilità di esprimere la propria fragilità e di confrontarsi con il disagio in modo costruttivo».
Come sottolinea Mattioli, il romanzo di Emanuele Galesi «ci ha permesso di lavorare sulla relazione padre-figlio, sull’emotività repressa e il non detto. Ma anche sulla vergogna, la paura, la pena, il senso di colpa e la speranza. Soprattutto abbiamo capito che la nostra storia è spesso quella degli altri; che nella diversità ci somigliamo in quanto persone. La capacità di mettere a nudo le proprie difficoltà, anche quando sembrano insormontabili, va allenata e il Paf in tal senso è un’ottima palestra. Soprattutto per ricordare che trovare la forza di chiedere aiuto è sempre l’inizio di una cura possibile».
La presentazione è terminata con le domande del pubblico: Antonio ha chiesto come si diventa dipendenti, Cinzia ha interrogato l’autore su come sia stato possibile conciliare il percorso di crescita con la difficoltà di relazionarsi con un padre tossicodipendente. «Scrivere è stata una cura – ha risposto Galesi – Quando riusciamo ad estraniarci dagli eventi della nostra vita per crearne racconti, riusciamo a proiettarli fuori da noi per osservarli meglio».
Tra i presenti anche Maria, che ha condiviso una riflessione sul “non detto”: «è stato uno dei motivi del rapporto conflittuale con mio padre, un uomo molto pratico che non amava molto parlare. I problemi che in età adolescenziale avevo con lui e che cercavo di affrontare non trovavano sbocchi. Il non dire e non affrontare i disagi, che siano essi fisici o mentali, può portare solo ad aggravarli. Secondo la mia esperienza, la mancata esternazione dei problemi rischia di sublimarsi nell’uso di sostanze, che per alcune persone diventano un appiglio o un palliativo».
L’autore e giornalista bresciano è stato tra i vincitori del Premio Letterario “Angelo Zanibelli – La parola che cura”. Nato nel 2013 per valorizzare la narrazione come strumento sociale e terapeutico, dà voce alle storie di pazienti e di chi li assiste, nella convinzione che condividere l’esperienza della malattia sia già parte della cura. Un pensiero sostenuto da Galesi, che sottolinea l’importanza come “tutto ciò che ci consente di esprimerci, permette di convivere con il nostro passato».
Scegliere le giuste parole e dare forma ai pensieri è un passaggio fondamentale per compiere questo processo. È ciò che accade anche durante la rassegna stampa di buone notizie “Happy news”, che anche quest’anno ha partecipato al PAF, dove i quotidiani diventano uno spunto per riflettere e trovare nelle parole un riflesso del proprio mondo, per imparare a raccontarlo. «Ho lavorato in un giornale per anni – commenta Galesi – e voi, cercando buone notizie, fate una grande cosa, un lavoro su qualcosa che non esiste».
Come spiega Roberto Poli, direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’Asst di Cremona, «molto è cambiato dagli anni Settanta raccontati nel libro di Galesi. In quel periodo il consumo di sostanze era limitato all’eroina, con modalità e contesti ben identificabili. L’arrivo della cocaina negli anni Novanta, più diffusa e accessibile, ha ampliato parecchio il bacino di persone che facevano uso di droghe. Oggi ci troviamo di fronte ad uno scenario ancora diverso, caratterizzato dall’uso di nuove sostanze psicoattive, che danno meno dipendenza ma causano effetti e danni psichiatrici molto più rilevanti e spesso irreversibili. Chi le usa non si considera un tossicodipendente, ma uno “psiconauta”, una persona che fa esperienze, portando spesso a sottovalutare il problema.
«Ciò determina un rischio – commenta Poli – soprattutto quando si parla di consumatori giovani (dai 15 anni in su), che riescono ad accedere facilmente a queste sostanze. Lo sviluppo del web e delle nuove piattaforme online ha facilitato il traffico di stupefacenti, che prima avveniva in luoghi identificati». Poli sottolinea la «forte correlazione tra l’assunzione di sostanze stupefacenti e la presenza di disturbi psichici, dai disturbi psicotici e dell’umore fino a situazioni di deterioramento cognitivo. Spesso si parla di “doppia diagnosi”, ma nella maggior parte dei casi si tratta di un unico disturbo, in cui l’uso di sostanze può essere la causa o l’effetto di disturbi di altro tipo, e viceversa». Chiedere aiuto è il primo passo verso la cura: «Il Servizio Dipendenze prende in carico persone con problemi di dipendenza di vario tipo – prosegue Poli – Lavora in ottica multiprofessionale, con interventi mirati che comprendono l’aspetto sanitario a quello psicologico e socio-educativo. L’accesso è libero e gratuito: non servono impegnative e l’intero percorso avviene nella tutela della privacy della persona».