Cultura

Gennaio 1945: in bicicletta
sotto la neve la fuga da Farinacci

Seconda parte della ricostruzione storica di un episodio emblematico della fine della seconda guerra Mondiale, tratto dal diario di Duccio Jachia, classe 1925, "Evasione in bicicletta". La fuga di padre e figlio, ebrei e partigiani, dall'ospedale di Cremona fino a Stagno Lombardo, ospiti della famiglia Bodini e poi l'ospitalità del parroco di San Pietro in Mendicate

La seconda parte della ricerca dello storico Fabrizio Superti (QUI la prima parte) che racconta l’emblematica storia della famiglia di origini ebraiche Jachia, residente a Milano e rifugiatasi nella campagna casalasca di Casalbellotto dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938. Una serie di vicissitudini che, nella conclusione del capitolo, vede unite Storia e avventura.

Il racconto riprende ora dal tentativo della moglie dell’avvocato Dino Jachia – definito dalla milizia “unico estremista capace di turbare in questo momento l’ordine pubblico”  – di ottenere la liberazione dal carcere mandamentale di Casalmaggiore, in cui si trova rinchiuso il consorte.

La moglie del legale, nonostante la nota ostilità espressa dal ras cremonese verso il marito, operava un disperato tentativo onde perorare la liberazione del coniuge recandosi di persona da Farinacci; accompagnata dal figlio maggiore, il 15 novembre, si recava a Cremona per conferire con il gerarca ma veniva “dirottata” presso l’ufficio dell’avvocato Tullo Bellomi il quale gli esprimeva la sua impotenza ad intervenire in quanto la vicenda risultava di esclusivo appannaggio della Questura. Dopo l’inutile sortita presso le autorità fasciste la donna si recava presso il Vescovado dove poteva conferire con il vescovo Cazzani; l’anziano episcopo le mostrava il giornale di Farinacci su cui campeggiava un duro attacco contro la sua persona rassicurandola comunque di un deciso interessamento per la situazione del marito.

VIA DA CASALBELLOTTO – La sorte degli ebrei intanto si andava ulteriormente aggravando; dopo i noti fatti di Ferrara le restrizioni nei loro confronti aumentavano di livello. La stessa famiglia Jachia era costretta ad intraprendere una scelta dolorosa ma necessaria: lasciare Valbassa per trovare rifugio in territori meno compromessi. Grazie al meritorio interessamento di don Pietro si riusciva a collocare le due anziane zie livornesi presso una casa di riposo mentre le due donne, madre e figlia, prendevano, non senza pericolo, la strada del Veneto.
L’avvocato Dino Jachia rimaneva in carcere a Casalmaggiore sicuramente fino al gennaio del 1944 per poi essere trasferito presso il reclusorio di Cremona, “ospite” gradito del ras cremonese.

Le sue precarie condizioni di salute lo portavano ad essere ben presto trasferito presso il locale centro ospedaliero sotto la stretta vigilanza di tre militi della G.N.R; il figlio maggiore, sempre allocato sul padovano, nel frattempo predisponeva un piano per far evadere il padre dall’ospedale.
I due figli maschi, grazie al biglietto di accompagnamento stilato da Padre Donini (vicerettore del collegio dei Gesuiti di Brescia), riuscivano a programmare una visita al padre nel nosocomio di Cremona.

Muniti di documenti falsi, attestanti la loro provenienza dal territorio sardo, si presentavano al cappellano dell’ospedale che, con non poco stupore, accompagnava i due ragazzi dal padre. La visita inaspettata procurava una forte emozione al genitore che si informava sulle condizioni di tutti i membri della famiglia; rincuorato e rassicurato sulla sorte dei famigliari si dichiarava però assolutamente contrario ad ogni tentativo di fuga ritenendola troppo rischiosa.

SI PREPARA LA FUGA  – La tenacia del figlio maggiore non veniva smorzata dalle titubanze espresse dal recalcitrante genitore; ritornato in terra padovana iniziava a definire le modalità con cui condurre a buon fine la sua operazione di “prelievo forzato”. Con estrema cautela iniziava a stilare le modalità del tragitto nonché al reperimento della somma di denaro ritenuta necessaria per garantire la fattibilità della pericolosa sfida intrapresa. Ottenuto, tramite cambiali bancarie, un adeguato finanziamento partiva, accompagnato da due amici, alla volta di Cremona che raggiungeva, in bicicletta, dopo un viaggio assai avventuroso.

L’approdo alla città all’ombra del Torrazzo avveniva per l’antivigilia di Natale; trovato ricovero da un affittacamere riusciva a far visita al padre che confermava la sua ritrosia ad assecondare la volontà del figlio. Tale stato di impasse portava al rientro del figlio maggiore in Veneto lasciando al più giovane Duccio l’incombenza di predisporre il piano di fuga che previsto, nelle sue intenzioni, intorno al giorno di Capodanno. Per garantire al genitore di eludere gli eventuali controlli disseminati un poco ovunque, l’intraprendente giovane si era procurato un documento, emesso dal comune veneto di Luneo, che procurava una nuova identità al recluso.

Per vincere le titubanze del padre, il giovane Duccio tentava di prospettargli quanto sarebbe stata gradevole la beffa ai danni di Farinacci; il genitore ammetteva che la sorpresa avrebbe prodotto parecchio rumore. “Nessuno ci crederebbe. Poi succederebbe un grosso casino. A Farinacci gli piglierebbe un accidente a ombrello, e altrettanto a Romano, il Prefetto e al Questore, e riderebbe tutta Cremona. Mi dispiacerebbe per i piantoni che sono tre bravi ragazzi e la pagherebbero cara.”

 

L’OSPITALITA’ DELLA FAMIGLIA BODINI A STAGNO LOMBARDO – Nel frattempo Duccio trovava ospitalità presso la famiglia dell’ing. Angelo Bodini, padre dell’amico Gianni che, nel suo ruolo di assistente della Fuci manteneva ottimi rapporti con don Giglio Bonfatti, sacerdote assai vicino al vescovo Cazzani; l’approdo presso la nota e stimata famiglia di agricoltori, molto addentro negli ambienti cattolici cremonesi, gli procurava stupore ed ammirazione. Affascinato dall’enorme fattoria, posta in località Abbadia di Stagno Lombardo, guidata con mano ferma e paterna dal capofamiglia in cui ognuno disbrigava i propri compiti con solerzia precisione; il giovane studente rimaneva colpito anche dall’armonia che si respirava attorno al lungo tavolo dove tutti i numerosi membri della famiglia si ritrovavano a cenare.

Il tre gennaio, intanto, si compiva il primo tentativo di fuga con l’utilizzo di una sola bicicletta; l’operazione non otteneva un riscontro positivo ma il prigioniero riusciva comunque a far rientro nella struttura ospedaliera senza suscitare allarme. Due giorni dopo il giovane Jachia, procuratosi con non poche difficoltà una seconda bicicletta, si ripresentava all’appuntamento e finalmente riusciva a combinare la fuga con il padre. I due riuscivano  a superare i vari posti di blocco dislocati sul percorso agevolati dalla fitta nevicata che finiva per allentare le procedure di controllo. L’approdo salvifico e liberatorio nella residenza dei Bodini veniva salutato con viva soddisfazione da tutti i membri della famiglia cremonese, ansiosi di far conoscenza diretta con il nuovo gradito ospite.

Negli ambienti cittadini intanto la fuga del detenuto veniva, fra le diverse ipotesi formulate, addebitata ad una sorta di “complotto cattolico” in cui difficilmente le alte gerarchie del clero cremonese potevano risultare estranee.

DA STAGNO A SAN PIETRO IN MENDICATE – All’ing. Bodini non sfuggiva però quanto fosse a rischio la permanenza dell’evaso nella propria abitazione; gli otto chilometri che separavano Farinacci dal Jachia risultavano infatti una distanza troppo limitata per garantire all’ospite un rifugio sicuro nel tempo. Il piano predisposto prevedeva pertanto di trasferire, per una notte, i due ospiti presso la canonica di S. Pietro in Mendicate; l’anziano parroco della piccola località si era, infatti, reso disponibile ad ospitare i due fuggitivi nel loro avventuroso viaggio verso il Veneto.

All’alba del nove gennaio una slitta, trainata da un enorme cavallo belga giostrato da un cavallante di casa Bodini, trasferiva i due Jachia verso una nuova tappa del loro cammino; il presule accoglieva con benevolenza gli ospiti offrendo loro gli spazi disponibili presso la canonica per trascorrervi la nottata. Il mattino seguente iniziava il difficile percorso di avvicinamento verso il territorio mantovano; la fitta neve caduta nei giorni precedenti rendeva ardua anche la camminata a piedi tanto che il padre, a più riprese, manifestava la volontà di arrendersi. Fortunatamente il transito di un camion offriva loro la possibilità di raggiungere, senza eccessivo spreco di risorse fisiche, la località di Stienta, nei pressi di Occhiobello, compiendo in tal modo un decisivo passo verso la destinazione finale che riuscivano a raggiungere in pochi giorni.

 

DUE PAGINE DEL DIARIO “EVASIONE IN BICICLETTA”

 

 

 

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