Cultura

Tradimenti e solidarietà prima e dopo
la caduta del fascismo: una storia padana

La ricostruzione finora inedita dei legami cremonesi e casalaschi di una altolocata famiglia ebraica milanese, dall'emanazione e delle leggi razziali fino al caotico periodo successivo al 25 luglio 1943.

Una storia di prigionia e di salvezza, di tradimenti e di inaspettata solidarietà che attraversa il periodo delle leggi razziali e si protrae fino a dopo il 25 luglio 1943. E’ quella che emerge dalle vicende della famiglia Jachia, dell’alta borghesia milanese, ricostruite dallo storico Fabrizio Superti attraverso gli atti processuali custoditi nell’Archivio di Stato e l’autobiografia “Evasione in bicicletta – diario di un giovane partigiano ebreo” di Duccio Jachia, pubblicata nel 2012 dalle edizioni La Comune. Con inediti legami con il territorio cremonese e casalasco.

 

di FABRIZIO SUPERTI

“Evasione in bicicletta”, diario di un giovane partigiano ebreo, rappresenta una curiosa ed appassionante vicenda che si intreccia, a più riprese, con il territorio cremonese; vi è raccontata la storia di una famiglia ebrea milanese impegnata a sfuggire dalle persecuzioni imposte dalle leggi razziali durante la Seconda Guerra mondiale. L’autore del diario, Duccio Jachia, ricostruisce nel suo memoriale i difficili momenti trascorsi dalla sua famiglia in quei drammatici anni di guerra; in particolare risulta di notevole interesse la sua permanenza in territorio casalasco e la rocambolesca ed audace fuga organizzata per consentire al padre di evadere dall’ospedale di Cremona dove era piantonato.

 Il racconto della sue vicissitudini famigliari rappresenta uno straordinario affresco di quel periodo storico da cui emergono tutte le situazioni e le contraddizioni che caratterizzarono quell’epoca; una famiglia che si dovette misurare, suo malgrado, con i più biechi sentimenti di odio e opportunismo ma anche di tanta e diffusa solidarietà offerta spesso da chi, pur senza alcun rapporto parentale o di conoscenza diretta, si spese, anche esponendosi a gravi rischi personali, per garantire loro la sopravvivenza.

 

UNA FAMIGLIA DELL’ALTA BORGHESIA -La famiglia Jachia, originaria di Livorno, si era in seguito trasferita a Venezia dove il capostipite Scipione, medico provinciale, aveva concluso il proprio incarico professionale; il figlio Dino, nato nel 1890, si era laureato, giovanissimo, in Giurisprudenza presso il prestigioso ateneo di Padova per poi perfezionare gli studi con un soggiorno a Berlino; allo scoppio del conflitto mondiale si arruolava come volontario ufficiale nel Genio mettendo a disposizione le conoscenze di natura idraulica apprese negli studi compiuti, per passione, nella città patavina. Terminato l’impegno militare iniziava l’attività forense sfruttando anche i contatti acquisiti durante l’esperienza in Germania; nel contempo si trasferiva nel capoluogo lombardo andando a risiedere in un prestigioso palazzo di proprietà della famiglia Borromeo.

Il prestigio maturato lo portava ben presto a divenire un autorevole consulente a cui anche alcuni legali cremonesi attingevano per disbrigare situazioni complesse; la sua difesa a sostegno di antifascisti lo poneva all’attenzione delle autorità investigative del Regime.

La famiglia Jachia giungeva, inoltre, sul territorio casalasco in seguito all’acquisto di un podere di 110 biolche (circa 34 ettari) con annesso caseificio che lavorava quotidianamente cinque quintali di latte. La struttura agricola era posta in Valbassa di Casalbellotto ed era entrata nelle disponibilità della famiglia prima che l’avvento delle leggi razziali ponesse severe limitazioni alle capacità contrattuali degli ebrei.

 

L’avvocato Dino Jachia

1938, PER GLI EBREI TUTTO CAMBIA – Con l’entrata in vigore della legislazione antiebraica anche gli stessi Jachia dovevano far fronte alle stringenti disposizioni poste a loro carico. La promulgazione delle norme avveniva mentre la famiglia era di rientro da un soggiorno in Francia presso parenti; il padre tranquillizzava i figli, propensi a rimanere sul suolo francese, adducendo che la sua partecipazione come volontario alla Grande Guerra gli avrebbe garantito il rispetto delle Istituzioni.

La speranza dell’avv. Jachia non trovava ovviamente riscontro tanto che lo stesso, dopo esser stato espulso dall’ordine di appartenenza, veniva rinchiuso nel campo di internamento di Urbisaglia, posto in provincia di Macerata. Il resto della famiglia doveva abbandonare il prestigioso palazzo milanese e trasferirsi in una casa colonica presso la Valbassa. L’impatto con la nuova residenza appariva alquanto sconfortante; nel diario stilato da Duccio Jachia, espulso al pari dei fratelli da tutte le scuole del regno, si rammenta l’approdo alla località casalasca dove …”arriviamo dopo un lungo viaggio in treno e poi in camion in una piccola casa colonica a due piani sfalsati. Non c’è riscaldamento, né una vasca da bagno, né acqua corrente se non in cucina. A fianco vi sono la stalla, in alto i fienili, e poi la letamaia. Nella frazione più vicina, con 300 abitanti, a un chilometro di distanza, vi è un’unica bottega.”

Le nuove condizioni di vita, proprie della stragrande maggioranza della popolazione locale, stridevano con le precedenti abitudini invalse in una famiglia dell’aristocrazia milanese. Ad affliggere però la famiglia ebrea non era solo la perdita del livello sociale ma anche un clima di sospetto e controllo esercitato dalle autorità locali. Il parroco della piccola frazione, don Pietro Porrazza, avvisava, infatti, la moglie dell’avvocato che circolavano voci secondo cui il segretario politico avrebbe espresso l’intenzione di inviare in un riformatorio i figli maschi; il presule, onde scongiurare tale soluzione, proponeva di collocare i ragazzi presso il collegio dei Gesuiti di Brescia previo studio del vangelo e assunzione del battesimo. Alle rimostranze avanzate dai figli si opponeva con fermezza la madre che riteneva necessario, onde preservare il loro futuro, intraprendere tale percorso.

La liberazione dell’avvocato dal campo di Urbisaglia gli consentiva di far ritorno a Valbassa sempre sotto l’attenzione delle autorità locali; da un rapporto stilato dai carabinieri del luogo nell’aprile del ’43, si confermava che l’ebreo Dino Jachia risiedeva in zona mentre i due figli risultavano collocati uno a Brescia e l’altro presso il collegio Antonianum di Padova, dove aveva modo di incrociare il cremonese Gianni Bodini, figura che si rivelerà cruciale nel destino della famiglia ebrea.

 

CADE IL FASCISMO, INIZIA LA PRIGIONIA – Nel frattempo la situazione politico-militare in Italia si aggravava e le sorti del fascismo apparivano sempre più incerte; l’azione di controllo all’indirizzo del legale milanese non veniva mai meno. Nel luglio del ’43, a pochi giorni dalla caduta del Regime, lo stesso si ritrovava coinvolto in una vicenda che lo porterà, nel volgere di un paio di mesi, ad essere ristretto in carcere. Il tutto si sviluppava in forza dei rapporti conflittuali che insistevano fra Jachia e un casaro di origini svizzere che gestiva, in maniera indiretta, il caseificio della Valbassa; tale Walter Scherrer, infatti, insieme ai due fratelli pare riuscisse a controllare, sotto varie forme, una considerevole quantità di caselli dislocati in vari territori. Nel pomeriggio del 17 luglio, stando a quanto poi verbalizzato dal casaro svizzero, incontrando l’avvocato Jachia sarebbe stato da quest’ultimo ammonito sul fatto che presto, con l’arrivo degli Inglesi, il quadro politico sarebbe mutato radicalmente a suo vantaggio. Lo Scherrer, rivendicando la sua appartenenza alla razza ariana al cospetto di un ebreo, riferiva immediatamente quanto a suo dire raccolto a dei militi fascisti che, insieme, denunciavano, presso l’Arma dei carabinieri, Jachia per disfattismo politico. La sua posizione sarebbe stata aggravata da altre frasi, pronunciate dopo il 25 luglio, con cui invitava dei casari a boicottare la produzione per danneggiare l’economia. Dopo la fuga di Farinacci in Germania negli ambienti antifascisti cremonesi si era prospettato allo Jachia, in forza del prestigio di cui godeva, di divenire amministratore della società che editava il Regime Fascista; nonostante gli inviti il noto civilista preferiva declinare l’offerta in quanto maggiormente interessato, se possibile, a far ritorno alla pratica forense.
Nel frattempo la denuncia a carico dell’avvocato Jachia veniva formalizzata presso la caserma dei carabinieri il quattro di agosto e il susseguente fermo veniva operato il venti settembre. Le indagini, condotte dal pretore cav. Giuseppe Pasini, comportavano il fermo dell’indagato presso le locali carceri mandamentali. L’arresto del capofamiglia creava una forte apprensione nei congiunti che temevano conseguenze pesanti in caso di condanna; la vicinanza al carcere consentiva ai figli di visitare con frequenza il padre garantendogli un prezioso sostegno psicologico. Nel frattempo il movimento fascista, forte del determinante sostegno dell’alleato tedesco, aveva ripreso saldamente il controllo del territorio. La potenziale pericolosità del soggetto incarcerato veniva confermata nella relazione redatta dai carabinieri locali il 30 settembre in cui si evinceva che …”in Casalmaggiore non vi sono comunisti né sovversivi pericolosi da arrestare. L‘unico estremista capace di turbare in questo momento l’ordine pubblico è l’avv Jachia Dino, il quale il 20 corrente è stato fermato e rinchiuso, a disposizione della Questura di Cremona, nelle locali carceri mandamentali.”
Al noto legale milanese si addebitava, pertanto, una comprovata e riconosciuta capacità carismatica tale da raccogliere accanto a sé tutti coloro che esprimevano una posizione contraria al rinascente movimento fascista. Nella nota dell’Arma si rimarcava inoltre come, per evitare problemi di ordine pubblico, fosse stato necessario provvedere al fermo degli ex fascisti Carlo Manara, Nicodemo Pasquali e Giovanni Cavalieri onde sottrarli al pericolo di rappresaglia da parte dei fascisti locali. I tre soggetti a provvedimento di fermo sarebbero stati in procinto di organizzare un Comitato cittadino dell’ordine con fini politici non ancora ben definiti; gli stessi risultavano in stretta relazione con l’avv. Jachia e con il referente politico dello stesso Comitato, l’avv. Claudio Orlando, resosi al momento latitante. In forza della potenziale pericolosità espressa dai suddetti personaggi, si riteneva necessario il prolungamento del fermo stante, inoltre, la sopraggiunta disposizione emanata da sua Ecc. Farinacci il quale, venuto a conoscenza dei provvedimenti emanati, rimarcava la necessità che gli stessi fossero confermati.

(1 – continua)

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