Cronaca

50 anni fa la morte del vescovo
Bolognini. Partecipò al Concilio

“Vir prudentia cautus”: così recita l’epitaffio dettato da don Carlo Bellò per la tomba, nella cripta della Cattedrale di Cremona, del vescovo Danio Bolognini, morto cinquant’anni fa, il 2 dicembre 1972, dopo quasi vent’anni di episcopato a Cremona, ove aveva fatto solenne ingresso il 15 marzo 1953. Non una pleonastica ripetizione di concetti, ma l’indicazione che la sua cautela, pazienza e ponderazione nelle decisioni erano dettate da virtù, che si accompagnava al mai dismesso temperamento bolognese.

Era nato, infatti, ad Amola di San Giovanni in Persiceto il 27 ottobre 1901; entrato in Seminario divenne sacerdote nel 1926, studiò alla Facoltà teologica di Bologna, a Roma all’Università Gregoriana e, infine, a Bergamo, conseguendo i titoli dottorali in Teologia e in Scienze sociali. Fu docente nel Seminario regionale e parroco fino a quando, nel 1946, il cardinale Giovanni Nasalli Rocca non lo nominò suo vescovo ausiliare. Incarico tenuto per un anno anche con il nuovo arcivescovo Giacomo Lercaro, dopo avere retto la sede come vicario capitolare.

A fine 1952, mentre si pensava destinato a una diocesi emiliana, Bolognini fu nominato vescovo di Cremona dove, il 26 agosto, si era spento il venerato arcivescovo Giovanni Cazzani. Dovette così confrontarsi (ed essere confrontato) con la memoria dei due “giganti” dell’episcopato che lo avevano preceduto – Bonomelli e Cazzani – ma, pur custodendone la continuità, non se ne lasciò intimidire.

“Prospettando una situazione nella quale già si intravedevano le prime conseguenze concrete di un processo di secolarizzazione ormai avviato” (don Andrea Foglia) si preoccupò innanzitutto, fin dalla prima lettera pastorale, di promuovere e coltivare l’unità nella fede e nella formazione cristiana, con le sue ricadute anche nella testimonianza culturale e nella presenza sociale e politica dei cattolici, pur nella consapevolezza della distinzione tra l’ordine spirituale e quello temporale.

Nella densa commemorazione tenuta in Cattedrale a un anno della scomparsa, l’arcivescovo cremonese di Ferrara Natale Mosconi lo avrebbe descritto “sacerdote sostanzialmente rigido… uomo responsabile nel quale è piena la coscienza del dovere episcopale, senza nessuna ricerca né di effetto, né di pubblicità, né di popolarità, nel quale invece una saldezza di giudizio maturato… mirava al solido, e chiedeva soltanto per il bene delle anime”.

Promosse i congressi eucaristici zonali, celebrò l’Anno mariano (1954), indisse il pellegrinaggio diocesano annuale (nella festa dell’Ascensione) al Santuario di Caravaggio e dedicò alla Beata Vergine di Caravaggio, nel quartiere Giuseppina, una delle due nuove chiese parrocchiali da lui consacrate in città (l’altra fu quella di Cristo Re). Dette inizio nel 1955 alla visita pastorale, condotta con meticolosità per oltre un decennio. La carità, il Seminario di Santa Maria della Pace, da lui trasformato e arricchito anche con la nuova cappella centrale, l’Azione cattolica e l’apostolato dei laici furono obiettivi precipui della sua cura episcopale. Fin dal suo primo Natale cremonese volle che la celebrazione di mezzanotte divenisse “Messa della carità” per i poveri; sostenne le Cucine benefiche e l’Opera diocesana di assistenza (che precedette la Caritas) anche con la realizzazione delle colonie estive per bambini e adolescenti, spesso visitate. Una carità fatta anche di coscienza missionaria, come dimostrano le partenze, da lui autorizzate, di sacerdoti cremonesi per l’America latina e la mobilitazione della diocesi per il finanziamento e le dotazioni dell’ospedale di Tabaka (Kenya) voluto dal medico cremonese Mario Marini e poi a lui intitolato.

Pur non condividendone tutte le posizioni, monsignor Bolognini aveva difeso presso il Sant’Uffizio il “suo” sacerdote don Primo Mazzolari, e a lui spettò, a metà dell’episcopato cremonese, di partecipare – lo fece con assiduità e intensità – al Concilio Vaticano II (1962-1965) indetto da san Giovanni XXIII, concluso da san Paolo VI, e che avrebbe recepito non poco dello spirito mazzolariano. Per lui, vescovo residenziale a tutti gli effetti, si trattò dell’assenza più lunga da Cremona, peraltro intervallata da periodici ritorni e contrappuntata dalle lettere che, con frequenza settimanale, dirigeva alla diocesi.

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