Economia

Piano strategico nazionale e misure
per la nuova Pac: le sfide del 2022

Per il Psn l'Italia è in ritardo, ma non è la sola tra i paesi Ue: Bruxelles dovrà concedere una proroga. Per la Pac le indicazioni nazionali sono piuttosto preoccupanti per gli agricoltori e gli allevatori dell'area padana.

Finisce il 2021 ed inizia il 2022 con lavori in corso ed in pieno svolgimento per due aspetti decisivi per il futuro dell’agricoltura italiana: la definizione del Piano strategico nazionale e delle misure di competenza nazionale per la prossima Pac che entrerà in vigore esattamente tra un anno, il 1° gennaio 2023. Per il Psn l’Italia è in ritardo, ma non è la sola tra i paesi membri dell’Ue: Bruxelles dovrà concedere una proroga di almeno un paio di mesi ai ritardatari per assemblare il pacchetto dei piani nazionali. Da indiscrezioni pervenute da fonti generalmente ben attendibili il pacchetto di proposte italiane è piuttosto corposo anche se ancora nulla trapela sui contenuti. A breve dovrebbero cominciare a circolare le prime bozze.

Al contrario, per quanto riguarda la Pac, i lavori sono in fase avanzata, anche se giova ricordare che siamo in proroga della vecchia Pac. Le misure e le azioni delineate dal nostro paese, sulla scorta delle indicazioni del piano approvato da Bruxelles poche settimane fa sono piuttosto preoccupanti per gli agricoltori e gli allevatori dell’area padana. Le ragioni? Per loro si prospetta una forte diminuzione delle risorse disponibili.

Dopo i tagli generali effettuati a Bruxelles alla Pac in modo generalizzato, l’Italia sta adottando misure nazionali che vanno contro l’agricoltura intensiva e professionale a vantaggio delle aree meno vocate e dell’agricoltura biologica ed estensiva. Spostando risorse dal massimale dei pagamenti diretti allo sviluppo rurale. In termini pratici, dall’insieme delle misure previste, che prevedono convergenza interna, taglio del valore dei titoli e del greening, si prospetta una decurtazione delle risorse per gli agricoltori e allevatori della pianura padana che potrebbe arrivare anche al 50%, proprio perché verrebbero colpite le aziende più professionali.

Un deciso indirizzo verso il sostegno alla estensivizzazione dell’agricoltura italiana viene dato dai cinque ecoschemi decisi dal nostro Ministero. Eccoli: Zootecnia, con indirizzi specifici verso la riduzione di antibiotici ed il sostegno all’allevamento basato sul pascolo e semi brado; inerbimento delle colture pluriannuali; olivi di rilevanza paesaggistica; sistemi foraggeri estensivi; colture a perdere di interesse mellifero. Non occorre entrare in una specifica analisi di queste singole voci per capire come gli agricoltori e allevatori dell’area padana saranno fortemente penalizzati. Ma con loro risulteranno penalizzate intere filiere produttive, quelle delle principali Dop nazionali che si basano sulla coltivazione del mais, l’allevamento di bovine da latte e di suini, da cui si ricavano oltre una ventina di Dop, vanto dell’agroindustria italiana, a partire dai principi dei formaggi e salumi: Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma e San Daniele.

Ma il rischio potrebbe essere anche ulteriore e più sottile. Dal momento che per la produzione di queste eccellenze alimentari, i disciplinari di produzione (approvati dalla Ue) prevedono che almeno il 50% dei foraggi e mangimi provenga dalle zone tipiche di produzione, se non sarà più conveniente produrre i foraggi/mangimi in quell’areale, si pensi ad esempio al mais, che è la principale forma di energia negli alimenti zootecnici, potrebbe essere a rischio la tenuta delle Dop stesse. Con pesanti ripercussioni anche sulla bilancia dei pagamenti del sistema economico italiano.

Peraltro, come già evidenziato su queste colonne, alla base di tutto ciò vi è un grande equivoco: l’agricoltura intensiva non è quella che inquina di più ma di meno. A patto di analizzare i parametri dell’efficienza basati non sull’unità di prodotto ma sul loro valore nutritivo. E allora come è possibile che si possa giungere ad un risultato del genere? Semplicemente perché non si ascolta la scienza ma la pancia dell’opinione pubblica.

La riprova viene dagli autori delle risposte fornite ad un panel di ascolto organizzato dal Mipaaf.  Si sono avute 93 risposte, con la seguente composizione dei profili: 14 dal Partenariato Istituzionale, 9 dalle Associazioni Ambientaliste, 20 dalle Associazioni di Settore, 25 dalle Associazioni Nazionali, 9 dalle Organizzazioni Sindacali, 16 da altre organizzazioni non ricadenti all’interno delle precedenti categorie (GAL, biodistretti, OOPP, Agrotecnici, Autorità di Bacino, etc.). Al momento la situazione è questa ed i margini di correzioni molto limitati.

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