Cronaca

Oggionni: "Costruire pneumologia
che serva il territorio"

Primo giorno di lavoro all’Ospedale di Cremona per il nuovo primario di pneumologia Tiberio Oggionni.

Con quale stato d’animo si accinge al nuovo incarico?

In questo omento il mio è uno stato d’animo di attesa; di attesa curiosa verso un ambito di lavoro come quello dell’ASST di Cremona, diverso da un IRCCS (San Matteo di Pavia) dove ho sempre lavorato. Sono desideroso di conoscere i nuovi colleghi, sia pneumologi che delle altre specialità, e tutte le persone che in un ospedale, con ruoli diversi, cercano di rispondere al bisogno di cura del singolo paziente. Urge poi il desiderio di mettere tutto me stesso, dal punto di vista umano e professionale, in questo nuovo compito che mi è stato affidato.

Quali sono per lei le tre caratteristiche essenziali di una “pneumologia” ideale?

Una pneumologia ideale deve essere “completa”, nel senso che deve essere in grado di poter diagnosticare e curare tendenzialmente tutte le diverse malattie polmonari, comuni o rare, in collaborazione con gli altri specialisti dell’ospedale. Deve avere a disposizione – e progressivamente aggiornare – tutti gli strumenti tecnologici più avanzati per la migliore cura del malato. Penso ad esempio alla strumentazione endoscopica, a tutto l’ambito di presa in carico dell’insufficienza respiratoria acuta. Deve sapere rispondere al bisogno del malato in tempi rapidi e organizzare una rete efficace di collaborazione esterna all’ospedale, cui affidare i pazienti che hanno bisogno di proseguire un percorso di cura dopo la fase più acuta della malattia.

Quali aspettative e propositi per la Pneumologia di Cremona?

Ovviamente che sia il più possibile una pneumologia ideale. Il lavoro da fare sarà rafforzare ciò che in questi anni è stato validamente costruito e orientarsi, quindi, verso una pneumologia ancora più “specialistica”, capace di affrontare la complessità della patologia respiratoria. Il desiderio è iniziare un graduale lavoro di ricerca clinica, che aiuti a migliorare le capacità professionali di ciascuna delle persone che lavoreranno con me. Il proposito è costruire una pneumologia che serva fino in fondo il proprio territorio, ma che tenda anche, perlomeno in alcuni ambiti, ad essere punto di riferimento al di fuori dei confini provinciali.

Cosa significa iniziare un nuovo percorso professionale, in un reparto come la Pneumologia in questo momento storico?

Dal febbraio 2020 tutte le pneumologie – o meglio, tutti gli ospedali – hanno dovuto fare i conti, in modo imprevisto, improvviso e drammatico, con una malattia nuova: l’infezione da SARS-CoV2. Iniziare oggi un nuovo percorso professionale per me significa sapere, come è successo negli ultimi mesi, che alcune persone (speriamo il minor numero possibile) potranno avere bisogno delle cure di pneumologi, infettivologi e intensivisti. Occorre quindi essere pronti, dal punto di vista organizzativo e clinico, con la speranza di aver a disposizione un miglioramento delle possibilità terapeutiche, oggi ancora limitate. Inoltre, sarà fondamentale seguire quei pazienti che possono avere conseguenze cliniche significative dopo l’infezione.

Il suo approccio al lavoro in team?

La cura di ciascun paziente – nel senso di “risposta”alla persona – è responsabilità del singolo medico. Questa risposta, però, deve sempre essere una presa in carico condivisa, con i colleghi, con gli altri specialisti e con tutte le persone dell’ospedale coinvolte nella cura dei malati, sia dal punto di vista clinico sia organizzativo. Se guardo alla mia esperienza in questi anni nel programma di trapianto polmonare o nel team multidisciplinare nelle malattie fibrotiche del polmone (di cui ero il responsabile), un lavoro al di fuori di un contesto multidisciplinare sarebbe inimmaginabile.

In che misura la relazione con il paziente è importante nel percorso di cura e perché?

Il prendersi cura è sempre rivolto al singolo paziente, per cui la relazione con la persona che si ha di fronte, di fatto unica, fa parte della cura stessa. Personalmente, in questi anni, ho deciso di fare un percorso di formazione sulla relazione medico-paziente, imparando ad applicare specifiche tecniche di comunicazione. Resta fermo il fatto che l’efficacia di qualsiasi tecnica è strettamente correlata all’atteggiamento e all’umanità del medico.

L’emergenza sanitaria ha cambiato il suo modo di essere e sentirsi medico?

L’emergenza sanitaria, come già detto prima, in modo imprevisto, improvviso e drammatico mi ha fatto rivivere l’esperienza del limite. È stato doloroso, soprattutto nelle prime settimane della pandemia, non sapere come curare i pazienti e non avere a disposizione quegli strumenti terapeutici che avrei desiderato. È stato però anche un momento professionale in cui con umiltà ci si è messi in gioco per comprendere ciò che non conoscevamo, per dare ai pazienti le cure che ritenevamo migliori, sempre disposti a mettere in discussione le scelte fatte. Questo spero possa essere uno sguardo ed un metodo da rinnovare ogni giorno nel mio lavoro di medico.

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