Cronaca

Storia del dott. Marchi, nefrologo dell'ospedale: 'Un incubo quel 20 febbraio'

“Dopo la pandemia ho scoperto che la vita è più difficile di quel che pensassi. Ha lasciato un segno indelebile: non si torna indietro e non ne siamo ancora usciti. Non so se ci potremo riappropriaci della vita di prima e credo che, almeno io, difficilmente mi separerò dalla mascherina”.

A pronunciare queste parole, come riporta l’Ansa, è Gianluca Marchi, nefrologo all’ospedale di Cremona: il 20 febbraio dell’anno scorso avrebbe dovuto essere “una delle giornate più belle” della sua vita: il compleanno, 36 anni, aveva da poco chiesto la mano a quella che sarebbe diventata sua moglie e doveva che avrebbe dovuto trascorrere quel weekend a una cena con parenti e amici per festeggiare.

Invece la notizia del primo caso di Coronavirus, quello di Paziente 1, ha cambiato tutto: “anche se non era chiaro se fosse influenza o un’influenza più pesante – racconta – ho annullato la prenotazione al ristorante e mi sono messo in lockdown in attesa di capire cosa fosse quel virus”.

Poi il primo caso anche nell’ospedale della cittadina: una ragazza che era stata in medicina e poi in pneumologia. “A quel punto capii che il rischio era alto e mi sono isolato a casa mentre la mia compagna con in grembo nostro figlio è stata un po’ dai miei e un po’ dai suoi genitori. Siamo ritornati a vivere insieme a giugno e ad agosto è nato il bimbo”.

Per il dottor Marchi è stato un periodo duro quello vissuto un anno fa e tutt’ora non riesce a dimenticare, tant’è che quando sente le sirene di un’ambulanza i battiti del cuore aumentano, dorme male la notte e, in questi giorni, con gli effetti collaterali del vaccino anti Covid, “sono tornato con la testa a quei giorni, a quell’incubo”.

“All’inizio, quando è arrivata la prima ondata – racconta – l’impressione era quella di essere in una notte lunga. Mi viene in mente il corridoio del mio reparto, il buio e il silenzio rotto solo dal fischio dell’ossigeno mentre veniva somministrato ai pazienti. Erano tutti in ossigenoterapia”.

Marchi ricorda un “senso di impotenza davanti a una malattia nuova” che ha imposto a una gran numero di medici di riconvertirsi e imparare in sostanza un nuovo mestiere, come è accaduto a lui che è nefrologo. “Un’altra esperienza da incubo – aggiunge – è stato quando in una notte ho dovuto constatare 5 decessi. Avvisare i parenti è stato terribile”.

Qualche ricordo che le ha dato la forza per andare avanti? “Il modo in cui mi ha ringraziato uno dei nostri pazienti dializzati che ce l’ha fatta. Era ed è un uomo di poche parole, ma la sua voce da cui trapelava una forte emozione mi consola ancora adesso”.

Inoltre non dimentica la solidarietà e l’aiuto ricevuto dai colleghi quando anche lui si è ammalato e come si siano rinsaldati i rapporti tra gli operatori sanitari, qualunque ruolo e mansione svolgessero. “Il Covid ci ha legato molto. Ha tirato fuori la vera natura delle persone e nessuno si è mai tirato indietro nonostante l’alto rischio di contagio”.

Infine, confessa di aver scoperto “di aver una maggior sensibilità nei confronti dei bisogni dei malati. Parlo dei bisogni più umani, come far sapere che si vuol bene a chi è a casa”. Il medico lo ha fatto più volte con una telefonata.

© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...