Cultura

C'è anche Cremona nel libro del filosofo Max Picard che esplora l'Italia del dopoguerra

«Mondo distrutto, mondo indistruttibile» è il titolo del libro di Max Picard, filosofo-scrittore che nel suo diario esplora l’Italia del dopoguerra (Marietti1820). Nel volume, in libreria dal prossimo 2 luglio, ampio spazio viene dato anche alla città di Cremona, alle sue piazze, ai suoi monumenti e alla sua gente. Salvezza e degrado convivono nella realtà che Picard  esplora nel suo singolare diario, evocazione di un viaggio in Italia avvenuto nell’immediato dopoguerra, negli anni 1949-1950, con mezzi del trasporto pubblico e a piedi, in un dialogo continuo con operai e commercianti, anziane contadine, poveri e ricchi. Tradotto per la prima volta in italiano a cura di Gabriele Picard e Mauro Stenico con la prefazione di Silvano Zucal, il testo  “fa emergere il volto di un paese perennemente sospeso  tra la distruzione dissennata di un patrimonio monumentale e umano unico al mondo e la resistenza a questa furia annientatrice. Il filosofo svizzero ci permette così di guardare alle nostre città e ai suoi abitanti in modo davvero inedito attraverso episodi e volti, dipinti ed edifici. E lo straordinario racconto di un’Italia che non c’è più, ma anche ‘una scuola su come guardare cose e uomini a partire dall’immagine’.  Questo è infatti il cardine del pensiero di Picard, amico di Joseph Roth – che lo definì ‘profeta e vate’ e anticipatore della concezione della ‘società liquida’ di Bauman e della filosofia del volto di Lévinas”.

Di seguito l’estratto del libro che parla di Cremona:

25 settembre – Ero già stato due volte a Cremona. Nella memoria mi era rimasta solamente la piazza del Comune, l’antica piazza principale, con la grande torre di otto piani , e la bianca facciata del duomo, ma ancor più nitido era il ricordo del battistero: si ergeva come un gigantesco cippo confinario al termine di una via dell’impero romano. Nel ricordo il cippo si faceva sempre più grande, cresceva sempre più, e tutto ciò che gli era attorno diminuiva, persino la torre dagli otto piani, che sprofondava lentamente. Il resto della città, nel ricordo, non era che un miscuglio di pietre.

ora ero di nuovo a Cremona. Dalla stazione camminai fino alla piazza del Comune. Non v’era alcun nesso tra la città nuova e l’antica piazza del Comune; quest’ultima, con i suoi edifici, aveva un’esistenza a sé, come pure il resto della città. La città ha un nuovo centro, piazza Roma, con piante, aiuole di fiori e caffè tutt’attorno. Piazza Roma non era nemmeno orientata verso l’antica piazza del Comune, ma era come se fosse stata la prima e la sola ad esserci. L’antica piazza del Comune con il duomo, la torre, il municipio dalle forme gotiche appariva solo come qualcosa di casuale, come un vagone ferroviario che, erroneamente staccato, era rimasto abbandonato.

Calava il crepuscolo. I lumi non vennero subito accesi, si concedeva un po’ di oscurità ancora alla sera. Non era come nella metropoli dove, dopo il giorno che si smorza, non viene la notte, bensì la luce accecante, alla quale sono appesi alcuni brandelli di oscurità. Qui si andava accendendo qua e là, pian piano, una luce in una bottega, poi una sulla strada, una su una vettura che passava, e la gente sembrava ancora provar piacere al sorgere dei lumi. Su piazza Roma la gente si fermava davanti ai caffè, illuminati ora dalla luce: era ancora un avvenimento, qui nella piccola città, il fatto che fosse la luce a giungere.

Durante la cena all’albergo Roma: di fronte a me, accanto all’altra parete della sala, cenava un uomo di mondo . Egli non possedeva più un viso proprio, il viso era solo ancora l’immagine speculare delle prostitute che aveva conosciuto. Il bianco degli occhi era turgido, come sviscerato dallo sguardo bieco delle prostitute che lo aveva sempre colpito; le guance erano butterate: la risata vacua di queste donne aveva sbattuto sulla parete delle sue guance scavandovi cavità. Egli teneva spesso entrambe le mani sulla superficie delle guance, come se non potesse più sopportare l’eco di questo ridere, che sempre e ancora erompeva dalle cavità. La vita di queste donne era come sepolta viva in questo volto.

Dal fondo della sala una donna osservava i presenti con uno sguardo lento e benevolo. Quanto più a lungo ella guardava, tanto più i suoi occhi si facevano benevoli: era come se li nutrisse dando loro da guardare.

Un’altra donna molto bella le sedeva accanto. Sembrava che in questo viso parecchio fosse dovuto venir espulso prima che il bello potesse apparire. Ciò che era stato eliminato era tuttavia rimasto nel viso, ricoperto a cupola dalla bellezza. Più bello della bellezza stessa è vedere come il bello si volge indietro verso ciò che dovette essere eliminato per poter divenir bello, e questo volgersi indietro si mostra nella timidezza presente nel bel viso.

26 settembre – Questa mattina mi trovavo nuovamente sulla piazza con gli antichi edifici. Il cippo di confine dei miei ricordi, il battistero, era in realtà calato, si era fatto più piccolo.

La facciata del duomo era bianchissima. Gli uccelli volavano qua e là, attorno ai due colonnati della facciata, e cinguettavano nel volo, quasi che il cinguettio nascesse dallo sfiorare le loro ali le bianche colonne.

Lungo la facciata corre un doppio ordine di logge con colonne e archi, sul protiro c’è una tribuna con figure di santi, sopra il rosone altre figure di santi, e sopra ancora tre piccole torri cilindriche, la facciata è assai modellata. Dai lati del duomo incalzano mura molto spesse, quasi anch’esse in attesa di venir modellate.

Ritorno davanti, sulla piazza. Gli uccelli volano ancora attorno alla facciata, e ancor più numerosi volano sopra il duomo in fitti stormi, come una nuvola scura – ma allorché lo stormo cinguetta, essa diviene come una nuvola chiara.

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