Cronaca

Neurochirurgia, faccia a faccia col Covid: 'Non siamo eroi, ma domani ricordatevi di noi'

“Abbiamo retto molto bene ad un urto tremendo, al vortice che ci ha travolto, ma al tempo stesso abbiamo avuto paura: di una malattia nuova, del senso di impotenza e a volte di inadeguatezza nell’assistenza di pazienti che non avevamo mai trattato. Ma chi di noi è stato contagiato, scalpitava per poter tornare al lavoro, perché questo è il nostro lavoro”.
Inizia così la testimonianza corale degli infermieri e degli operatori sanitari del reparto di neurochirurgia del Maggiore, trasformato da metà marzo in reparto Covid quando, ancora all’inizio dell’emergenza, bisognava recuperare ogni posto letto possibile per pazienti gravi o gravissimo. Una serie di testimonianze raccolte dall’infermiera Fabiola Barcellari che riassumono i sentimenti che in queste dure settimane si sono succeduti nelle menti e nei cuori degli operatori.
“Adesso ci chiamano eroi”, sintetizza Fabiola, ma domani, ad emergenza rientrata, vorrei che il rispetto per la nostra professione non venga dimenticato. Ci fa piacere che si riconosca la nostra professionalità, ma i problemi continueranno ancora a lungo e vorremmo che questa considerazione continuasse”.
“Siamo 26 infermieri e 7 Oss e ci siamo messi in gioco con volontà, competenza, capacità, imparando da un giorno all’altro a utilizzare i dispositivi della terapia intensiva respiratoria a cui non eravamo abituati. Tutto il reparto è stato riservato ai Covid, è stato l’ultimo ad essere riconvertito, dal 18 marzo, dopo che gli ultimi pazienti di neurochirurgia sono stati trasferiti a Brescia”. Così, i 24 posti letto ordinari hanno iniziato ad accogliere pazienti Covid in criticità media, persone che necessitavano di ossigeno o a cui era applicata la CPAP nelle stanze a due letti; mentre gli otto posti letto di terapia intensiva destinati agli interventi di neurochirurgia, sono diventati letti di rianimazione per pazienti intubati. Un infermiere ogni due posti, una vicinanza assidua e costante a persone che in molti casi non ce l’hanno fatta.

“Per noi è stata un’esperienza forte”, racconta Fabiola “intubare una persona che è ancora sveglia, che va sedata, e magari non vederla più risvegliarsi. Purtroppo è successo, diverse volte. Ricordo il risveglio di una signora ed è stata una bellissima emozione. Il giorno prima era ancora un po’ sedata, ma la mia collega le parlava e la signora muoveva già la mano. Il giorno successivo l’abbiamo risvegliata del tutto e lei ci guardava come se fossimo in un’altra dimensione. ‘Ciao, come stai, sai che c’ero io qui con te’, le diceva la mia collega. E lei la guardava tra lo spaventato e lo stupito, ci richiamava indietro se ci allontanavamo. E’ stato bello vederla che ci guardava con gli occhi curiosi, felici. All’inizio aveva timore quando le toglievamo la maschera, quella semplice, che era necessaria per la transizione, ma per lei ormai era una diventata una sicurezza. Nella nostra esperienza abbiamo visto solo lei risvegliarsi…”

Per questi operatori sanitari si è trattato di passare da un giorno all’altro dalla consueta rotazione in tre turni a turni di 12 ore: dalle 7 alle 19 e dalle 19 alle 7. “Nessuno di noi si è rifiutato. Non è semplice, 12 ore sono tante e all’inizio dell’emergenza non c’era quasi il tempo per mangiare, ma a un certo punto la fatica è troppa e allora ti devi fermare. Le notti, poi, non sono mai semplici. Quasi tutti, anche quando siamo a casa, fatichiamo a riposare, il sonno non è mai tranquillo, perchè pensi a quello che succede qui dentro. E poi c’è anche il timore per i nostri famigliari, per il rischio di portare a casa il virus, e la paura dell’ignoto”.

LE TESTIMONIANZE – “All’inizio c’è stata paura – dice Anna – sia per la malattia, sia per il doversi far trovare pronti ad affrontare qualcosa che non conoscevamo appieno. Ci siamo trovati nel mezzo di un uragano senza avere le conoscenze adeguate. Una delle cose che mi hanno più colpito è stato il distanziamento sociale portato dalla pandemia, il fatto di non potere ancora dopo quasi due mesi, poter ricevere un abbraccio e avere la vicinanza delle persone care, sia per noi sanitari che per i pazienti stessi che sono stati da soli ad affrontare la malattia e alcuni anche la morte, la paura più grande dell’essere umano. Tanti malati, chi più o chi meno coscientemente, hanno dovuto affrontare la morte senza una persona cara. Questo penso sia la cosa più terribile. Come anche per i parenti non poter affrontare il lutto nella maniera più naturale. Questo mi ha molto segnato a livello emotivo: per noi infermieri si è trattato anche di dare un supporto emotivo a questi pazienti. A fine turno è inevitabile portarsi a casa un carico psicologico pesante, che poche altre patologie danno”.
“La professione dell’infermiere – dice Claudia – in questo contesto ha saputo dare prova della sua essenza, della sua cultura e soprattutto della sua forza. Troppo spesso considerato un ruolo di secondo piano, abituato al carico della sofferenza, ma sempre determinato … è una professione che merita nuove prospettive e una crescita condivisa”.
“La vita spesso ci mette a dura prova – conclude Fabiola – Spero che questa emergenza faccia riscoprire alle persone il vero senso della vita, la riscoperta dei valori e di quanto sia importante il diritto alla cura e alla sanità pubblica”.

Questi gli infermieri della Neurochirurgia: Besanzini Manuela Coordinatrice, Barcellari Fabiola, Gulli Sabrina, Ghigi Silvia, Kus Oscar, Petrillo Stefano, Amighetti Anna, Mauri Francesca, Dragonetti Mariangela, Scolari Claudia, Madonna Teresita, Giudici Simona, Binotto Michela, Boccuni Cinzia, Vigolini Enrico, Gaimarri Paola, De Gioia Francesco, Zardi Francesca, Di Nome Vincenzo, Mancastroppa Romina, Martino Anna, Guindani Stefano, Calafato Ausilia, De Martino Eliana, Trigila Vincenzo, Cannizzo Sofia, Di Grande Martina. OSS: Monico Valentina, Candela M.Grazia, Malinverno Giuliano, Longobardi Maria Rita, Giunta Marcello, Romano Salvatore, Lionelli Giovanna. g.biagi

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