Cronaca

Don Rubagotti sta meglio: 'Il virus sfida del presente, grande insegnamento è la serenità'

CREMONA/CASALMAGGIORE – Si è fatto scattare una fotografia davanti alla finestra delle Figlie di San Camillo a Cremona, dove è ricoverato, da un infermiere: alle sue spalle si intravede la chiesa cremonese di Sant’Ambrogio, “perché qui ho iniziato a fare il sacerdote. Ed ero già un po’ “matto” allora, quando andavo sulla Vespa e arrivavo all’oratorio così. Qualche infermiera qui era mia parrocchiana all’epoca: non mi ha riconosciuto fisicamente perché in quegli anni ero più bello, ma dalla voce sì, hanno capito che ero proprio io”. Per don Claudio Rubagotti, parroco di Casalmaggiore, la malattia è stata un ritorno al passato. Ma la missione è trasformare questo momento difficile in una ispirazione per il futuro.

“Sto bene – rassicura – e tutto sommato non ho passato momento drammatici. Difficili sì, ma credo di essere stato un privilegiato: soprattutto perché in questi giorni in ospedale ho riscoperto il valore della calma, della serenità. E vorrei che fosse così per tutti. Riprendo un libro che sto leggendo proprio in questi giorni, “La scommessa cattolica”. Si sostiene tra le righe che troppo spesso siamo come i criceti che vanno sulla ruota, sempre di corsa. Il Coronavirus ci insegni a riprenderci il nostro tempo”.

Come inizia il calvario di don Claudio? “Sono entrato al Pronto Soccorso Oglio Po il 5 marzo. Avevo celebrato nel pomeriggio il funerale di Giuseppina Guarneri, ma sentivo un dolore tremendo alla gamba sinistra, si era gonfiata. Io dieci anni fa avevo avuto una trombosi che poi si era trasformata in embolia polmonare. Quindi ho chiesto a don Angelo Bravi di proseguire al cimitero per tumulare la salma, dato che all’epoca si potevano ancora celebrare funerali completi, mentre don Arrigo Duranti mi ha accompagnato al Pronto Soccorso Oglio Po. La gamba era diventata pesante come un blocco di cemento. L’ecodoppler ha subito escluso la trombosi, ma facevo fatica e respirare e così mi hanno fatto la risonanza ai polmoni: dopo 12 ore in Pronto Soccorso mi hanno chiamato per dirmi che la cosa era seria e mi hanno fatto il tampone. Era l’1 di notte: e io che ero convinto di essere dimesso e di andare a casa a mangiarmi una pastasciutta…”.

Invece. “Polmonite interstiziale, tipica del Coronavirus, mi hanno detto. Ho provato a trattenere il respiro, per verificare, e in effetti non riuscivo a farlo per più di due secondi. Vi dico quali sintomi ho sentito, perché io non ho mai avuto né febbre né tosse. Ma non ero al 100%, non sentivo i sapori e gli odori. Il 3 marzo, due giorni prima del ricovero, ricordo di avere mangiato una fiorentina al sangue: sentivo lo stesso sapore che si sente quando si mangia l’anguria, eppure quella carne era buona. E poi i problemi agli arti e la fatica a dormire bene la notte, già qualche giorno prima del ricovero. Sappiate che tutti questi sono possibili sintomi del Coronavirus. Molti dei miei compagni di stanza all’Oglio Po e alle Figlie di San Camillo li hanno provati”.

Il 12 marzo una ricaduta. “Una settimana dopo ero pronto a uscire. L’ossigenazione del sangue era sempre al 97%, perfetta, ma quella mattina – lo ricordo bene – ho avuto un crollo: febbre alta e pressione bassa. Mi hanno trattenuto e poi, quando dopo quattro giorni il peggio era passato, mi hanno portato alle Figlie di San Camillo. Qui ho avuto un dolore acuto al piede sinistro, lo stesso della gamba che mi aveva dato noie serie in passato. Ecco, il Coronavirus è bastardo, perché ti colpisce alle parti più deboli, dove sei già debilitato. Per me la gamba e il piede sinistro”.

Don Claudio si ritiene fortunato. “Non solo perché sono stato male soltanto quel 12 marzo, pur non essendo mai entrato in Terapia Intensiva e non essendo mai stato intubato. Sono stato fortunato anche perché quella notte tra il 5 e il 6 marzo l’Oglio Po stava liberando il reparto di Pediatria e così ho trovato presto un posto letto. E poi perché ho avuto a che fare con personale meraviglioso che, nonostante l’emergenza e nonostante un vestiario disagevole per lavorare, ti tratta con una delicatezza, una attenzione e una professionalità commoventi. Ci hanno sempre assistiti come se l’emergenza fossimo noi, non tutto quanto stava accadendo attorno, con la situazione sanitaria in continuo peggioramento. L’Oglio Po ha saputo valorizzare personale che in genere si occupa di altre faccende o di altri reparti dell’ospedale: è sintomo di grande professionalità”.

Conoscendola, avrà fatto “arrabbiare” le infermiere. “Solo qualche cantatina, perché quel vizio non lo perdo. Le infermiere mi dicono che è ora di mandarmi a casa, perché se canto sto bene. E allora io canto più forte perché non vedo l’ora. Cerco di essere sereno e prego: per il nostro Vescovo, che ha scritto una bellissima lettera in cui invita la Chiesa e i sacerdoti a essere prossimi alle persone e alla tragedia di chi muore, trovando nuovi modi per farlo; per don Cesare Castelli (sacerdote di Casalmaggiore, ndr) che sta rispondendo bene alle cure; per i miei colleghi e per i parrocchiani. Prego e cerco serenità e lentezza, quelle doti che avevo smarrito. Forse il Coronavirus qualcosa ci ha insegnato”.

Che Quaresima è e che Pasqua sarà? “Diversa da tutte le altre, una Quaresima così non c’è mai stata nella storia, nemmeno in tempo di guerra. E forse adesso capiamo il peso della Chiesa: quando si celebra un funerale, la Chiesa non chiede chi va a messa o chi crede, ma accoglie tutti nella consolazione, dai parenti agli amici del defunto. Oggi questo non è possibile. Il vero dramma è non poter annunciare il mistero della morte e della resurrezione, il vero dramma sono i lutti che non possono essere consolati da vicino: io stesso ho perso uno zio due giorni fa e non poterlo vedere è stato difficile. Quel che conta è capire che la Chiesa è fatta dal Popolo di Dio: quindi celebrare senza fedeli è un caso eccezionale, ma non si deve insinuare l’idea di una Eucarestia che sia esclusiva del prete. Anche se si celebra in tv, la Messa non perde un briciolo del suo significato collettivo”.

C’è chi dice che il mondo non sarà più lo stesso dopo il Coronavirus. “Quello che mi auguro è che tutto questo non diventi il pretesto per una vita sempre più schermata. Oggi la tecnologia aiuta ed è utile, ma siamo in emergenza. Nella vita quotidiana non dev’essere così, altrimenti il rischio è che il Coronavirus sia soltanto un modo per potenziare l’intelligenza artificiale. Dobbiamo evitare il rischio della tecnocrazia e ricordo il passo più importante delle Scritture: “Dio si è fatto Carne per noi”. Si parla di carne, di fisicità, la tecnocrazia e il virtuale non devono diventare una nuova religione”.

Come sarà allora il mondo finita la pandemia? “Mi auguro sia diverso da prima. Non voglio più vedere gente arrabbiata, lamentosa e prepotente, incapace di percepire un semplice gesto d’amore. Dobbiamo ritrovare il piacere di un cielo azzurro, di un abbraccio, che adesso ci viene negato, di mangiare una pizza in compagnia. Dobbiamo imparare a non andare più di fretta. Non dobbiamo più essere incapaci di dire “sto bene”: perché prima del Coronavirus non lo dicevamo mai? Adesso forse ce ne accorgiamo. Cito ora un salmo, che mi sembra azzeccato per il momento: “L’uomo che nella prosperità non comprende è come gli animali che periscono”. La Chiesa dovrà fare un grande lavoro, assieme alla società civile, di riconciliazione: dovremo rivivere i lutti e le sofferenze che ci sono stati, con la necessità di prendersi cura gli uni degli altri. E dovremo avere il coraggio di rialzarci, anche economicamente, come accadeva nel Dopoguerra”.

Cosa rimarrà di queste tre lunghe settimane? “I tanti messaggi e le preghiere che mi sono giunte sul cellulare, nonostante non abbia uno smartphone. Sono sentimenti freschi, proprio perché non sono tecnologico e mandare un messaggino che non sia WhatsApp, dove basta inoltrare in automatico, oggi è un po’ più complesso e meno immediato. E rimarrà il mio grazie a tutti gli operatori: finita questa emergenza, pensiamo a dare loro una sorta di corsia preferenziale nelle faccende quotidiane, come la spesa al supermercato o in farmacia, riservando loro orari o corsie. Un operatore sanitario è una sentinella ed è tale anche fuori dall’emergenza: dobbiamo riconoscere loro qualche possibilità in più nella pratica della vita quotidiana. E poi mi rimarrà l’insegnamento: quello di mantenere la serenità, di non fare sentire in colpa le persone che sono positive, perché in tempo di guerra – e questa è una guerra – serve solidarietà e serve evitare sofferenze ulteriori, partendo dalle energie che abbiamo dentro di noi. Se non ne abbiamo, significa che dobbiamo imparare ad arricchirci dentro. Mi resterà, anzi mi resta, il desiderio di affrontare il presente, perché questa che tutti chiamiamo pandemia è allo stesso tempo l’avventura in cui siamo collocati e che dobbiamo affrontare oggi”.

Giovanni Gardani

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