Tecnico di radiologia di Cr: 'Ho pensato di non farcela, col C-Pap capisci cosa significhi respirare'
Il tecnico di radiologia cremonese Carlo Giussani ha raccontato a Tagadà, la trasmissione di La7, la sua esperienza con il Coronavirus: ricoverato nei primissimi giorni di diffusione dell’epidemia, trattato con il respiratore artificiale e poi dimesso, ma ancora in convalescenza e debilitato.
“Non so se mi sono infettato al lavoro, noi tecnici andiamo dovunque nei vari reparti a fare lastre, abbiamo a che fare con molte persone. Venerdì 21 febbraio ho cominciato ad avere la febbre ma ho continuato a lavorare. La domenica mi han chiamato perchè nel mio reparto c’era stato un contatto con un positivo, han fatto il tampone a tutti e l’unico contagiato sono risultato io. Il 24 mi hanno ricoverato, perchè avevo già la febbre piuttosto alta da tre giorni e insieme problemi di carattere respiratorio che si sono aggravati nei giorni successivi”.
Carlo è stato ricoverato complessivamente 15 giorni, una prima parte nel reparto infettivi, uno dei primissimi pazienti ad essere sistemato in una delle stanze recuperate con grande tempestività (era stata sanificata appena due minuti prima), in un altro reparto. Poi, al peggiorare delle condizioni polmonari è stato trasferito a Pneumologia.
“Avevo la febbre 39,5 costante, una febbre debilitante, il paracetamolo la faceva abbassare, ma solo per poco”, racconta. “A un certo punto mi hanno attaccato al ‘C-pap’, che aiuta a liberare la parte più periferica del polmone. “Una tortura, certamente è utile, ma la trovo infernale. E’ una maschera che viene messa sul viso, ti copre completamente il viso, hai un impulso di ossigeno che entra nei polmoni. Si sostituisce in parte ai polmoni. E’ fastidiosa perchè ogni secondo che passa sei consapevole del fatto che respiri, sembra una sciocchezza ma ti rendi conto di cosa vuol dire respirare e pensi che possa non succedere più”.
In quei primi giorni di diffusione del Covid19, non si sapeva molto, non si vedevano molte speranze, il sospetto di poter morire era molto forte. “L’ultima lastra è stata la conferma ‘tecnica’ di qualcosa che provavo fisicamente: stavo già molto meglio da un giorno – due … Però diciamo l’ho scrutata con l’interesse di un microbiologo, scandagliando ogni anfratto e allargando al massimo i particolari per sentirmi sicuro-sicuro”.
Carlo spiega anche come si è evoluta la consapevolezza, tra gli addetti ai lavori, di quanto stava succedendo: “Quando ancora stavo lavorando, vedendo le trasmissioni televisive e i servizi sulla Cina, ho cominciato ad avere comportamenti più ‘virtuosi’ rispetto al mio standard … La mascherina non si usava ancora, ma le mani le lavavo molto più spesso di prima. Però era solo un piccolo campanello d’allarme, un richiamo a una maggior cautela, il virus me lo sentivo lontanissimo da noi…mai avrei immaginato questo repentino avvicinamento”.
Ora sono giorni che non vede i suoi colleghi, ma le testimonianze corrono tra chi opera dal fronte: “Sono stato tra i primi a essere allontanato e quindi ho testimonianze indirette, contatti telefonici per seguire il lavoro delle infermiere, dei medici e del personale ausiliario che mi ha accudito. Soprattutto sento mia sorella, che lavora in camera operatoria del nostro ospedale ed è stata riconvertita a infermiera per la sub- intensiva … Dai suoi racconti telefonici giornalieri rimango senza parole … oltre alla drammaticità delle storie dei pazienti, è a rischio la stabilità psichica e fisica di tutti gli operatori che giustamente temono per se stessi, per i propri famigliari, per i pazienti di cui si prendono cura e tutto ciò in turni massacranti … Senza, per ora, vedere la fine”.
“Adesso sto bene, sono solo un po’ debole. Mi piacerebbe tornare al lavoro per dare il mio contributo. Ho avuto moltissima paura. Ho fatto i conti anche con la possibilità che i giochi fossero finiti. Basterebbe fare un giro di 5 minuti in quei reparti per capire quanto sia importante rimanere chiusi in casa. Mi raccomando, non stancatevi di ricordare questo messaggio”. g.biagi