Fabio, dalla febbre che non passava al ricovero: 'Temevo di non poter essere curato'
All’inizio pensava a una normale influenza: qualche linea di febbre, un po’ di spossatezza, una prima visita dal medico di base che lo aveva tranquillizzato. Ci è voluta una settimana, un peggioramento improvviso e un respiro che diventava sempre più corto, per fare capire a Fabio Chiodelli, professore di Italiano alla scuola media di Sesto, che la situazione era molto più preoccupante. “Ho avuto la prima febbre il 25 febbraio – ci racconta – Dopo pochissimi giorni ero sfebbrato ed ero abbastanza tranquillo perchè girava la voce che, se anche fosse stato Covid, tutto sommato sarebbe stato equiparabile a una influenza. Erano i giorni in cui non c’era ancora piena consapevolezza”.
“Poi il primo marzo, una domenica, ormai sfebbrato e tornato a casa dopo una piccola spesa, mi sono sentito stanchissimo … ho provato la febbre ed era a 39. Con un po’ di paracetamolo andava giù, ma poi tornava sempre. In questa fase non avevo grossi problemi respiratori, anche se sentivo un po’ di affanno e stanchezza. A un certo punto, sentendo l’Ats con cui ero in contatto per altri motivi e sentendo il mio medico di base, sono andato al pronto soccorso: era esattamente una settimana dopo, l’8 marzo”.
Erano le 3 del pomeriggio quando Fabio è entrato al Pronto Soccorso, ma solo a mezzanotte ha potuto avere un letto e per questo si considera fortunato: solo perchè la sua febbre continuava ad essere altissima ha avuto la precedenza rispetto ad altri malati che erano in attesa nella stanzetta dedicata del Pronto Soccorso. “Qui ho visto il delirio. Infermieri e medici senza un minuto di respiro, tutti in continuo movimento, barelle dappertutto. Eravamo in una stanza piccola, una decina di persone tutte con lo stesso problema. C’erano persone che aspettavano il ricovero dal giorno prima, sabato, e avevano passato la notte sulle sedie. Mi chiedevo perchè non ci portassero qualcosa da mangiare o non ci trasferissero, ma poi ho capito che nessuno aveva tempo, c’erano urgenze continue.
“Mi hanno ricoverato in un reparto che avevano appena finito di allestire, in ortopedia, nuovo, tirato a lucido. C’erano due infermiere che mi aspettavano, ancora nessun malato. Ho visto il mio letto e, giuro, è stato un momento di grande sollievo… poi mi ha subito visitato il dottor Pan, con grande gentilezza”.
La paura però non era finita. Fabio non aveva bisogno di ossigeno ma la febbre restava alta e stava male. “Dopo tre giorni volevano mandarmi a casa, ma io mi sentivo molto precario, stavo prendendo i retrovirali e non avevo febbre da appena un giorno. Alla fine sono stato dimesso il venerdì, da allora sono a casa, isolato e proseguo le cure. Sto sempre in camera da letto, mia moglie e mia figlia probabilmente hanno pure preso il virus, ma a loro non è stato fatto il tampone. Per quanto mi riguarda sembra che tutto vada bene, fra un paio di giorni farò due tamponi ravvicinati per vedere se sono negativo”.
Lo shock più grande, ricorda, è stato proprio all’uscita dalla sua stanza d’ospedale, quel venerdì: “Il reparto era completamente cambiato: era vuoto quando ero entrato, ora invece il corridoio era pieno zeppo di materiali, davanti ad ogni porta c’erano carrelli, presìdi, farmaci, gente all’opera fino all’inverosimile. Meravigliosi gli infermieri, stanno continuamente a contatto coi malati e si occupano della quotidianità più spicciola. Sono stati strepitosi e a loro, oltre che ai medici, va la mia riconoscenza infinita”. “Questa esperienza mi ha insegnato molto riguardo la nostra sanità, che spesso bistrattiamo: mi sono reso conto che c’è e che gli operatori si danno da fare come dei matti per chi ha bisogno, a loro va il mio ringraziamento eterno”.
Umanità, dolore, paura, questi i sentimenti dominanti. “Ma la mia paura più grande non era di non guarire. La cosa più inquietante, è stato il terrore di non trovare posto in ospedale e questo timore non mi ha ancora abbandonato… se succede qualcosa ci sarà posto?”. g.biagi