Cultura

I giorni cremonesi di Bertolucci: conversazione con Morandi e Azzali

Giuseppe Morandi e Micio Azzali

di VITTORIO e UGO DOTTI

Quando, dopo un intenso periodo di ricerca documentaria sui volti e i costumi dei contadini del primo Novecento, nel 1976 uscì nelle sale l’opus maius di Bernardo Bertolucci, altri due grandi autori italiani, Ermanno Olmi e Florestano Vancini, si ispirarono idealmente al capolavoro del “verismo hegeliano”: Il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli (scritto fra il 1938 e il 1940, pubblicato in forma unitaria nel 1957), un romanzo di respiro epico interpretato da protagonisti umili, che sfilano sull’incerto discrimine fra ricostruzione storica e sceneggiatura fantastica. Ermanno Olmi terminò il suo Albero degli zoccoli nel 1978, due anni dopo il successo di Novecento, mentre data 1984 la composizione del meno noto ma non meno riuscito dramma contadino di Florestano Vancini: La neve nel bicchiere, tratto dal romanzo del giornalista Nerino Rossi. Di questo poetico film-documentario scrisse Moravia: “L’idea del regista è di far sì che la vita giornaliera di una famiglia di poverissimi scariolanti echeggi eventi grandiosi e terribili come la lotta di classe, il socialismo, il fascismo.”

Micio Azzali

Lo stesso si potrebbe dire a proposito di Novecento, anche se al destino amaro di una famiglia di braccianti, nel poderoso affresco di Bertolucci s’intreccia la vicenda di un novero ben più considerevole di destini.
Accolti nella sede della Lega culturale di Piadena dopo aver assistito, nel campi afferenti al contado di Pontirolo, ad un tramonto che il padre Attilio avrebbe ammantato di sublime, parliamo del capolavoro del figlio Bernardo – qui gli amici piadenesi lo chiamano così – con Micio Azzali e con Giuseppe Morandi. I due pilastri della benemerita Lega (che nulla ha da spartire con quella di Salvini) raccontano con emozione i ricordi di quando Bernardo si faceva accompagnare nelle campagne per interiorizzare gli scorci e per osservare i volti e gli atteggiamenti delle persone. Studiava per ore le fotografie dei paisan, che in quegl’anni Morandi aveva incominciato a scattare, sviluppando un’idea di Mario Lodi, come documento antropologico di una Bassa ineluttabilmente destinata a scomparire.
Bertolucci era un uomo di profonda cultura, un intellettuale di estrazione borghese che aveva frequentato l’Università e che fin da bambino si era trovato immerso nelle acque stupefacenti della poesia. Se è vero che le nostre amanti sanno di noi più di quanto noi stessi pensiamo di conoscere, dobbiamo allora credere ad Adriana Asti, sua sensuale compagna: “La creatività di Bernardo era assolutamente privata, personale. Era un poeta prodigioso, come il sublime padre Attilio.” E come poeta non poteva che trasluminare con getti di lirismo la sua ricostruzione documentaristica di un segmento della civiltà contadina dei primi decenni del Novecento. Questo comportò discussioni e contrasti con l’amico Micio, uomo di grande intelligenza e cultura empirica (che non val meno di quella scolastica) acquisita tra le guazze dei campi, dove l’angolo visuale sul lavoro e sulla vita può divergere, non poco, da quello estolto del poeta. Due episodi come esempio di questo divario, raccontati da Micio: la scena dell’uccisione del maiale e l’inverosimile bacio fra la stupenda Anita e l’uomo col sacco. Azzali – correttamente dal punto di vista del paesano – fece notare a Bernardo che il maiale veniva macellato sul fare dell’alba, senza che i bambini avessero accesso all’episodio cruento. Bernardo rispose che nell’economia narrativa del film serviva suscitare emozione e trasmettere impulsi partecipativi allo spettatore, non soltanto tentare di riprodurre la realtà. Stessa incomprensione, amichevolmente dibattuta, emerge a proposito della scena in cui Olmo Dalcò (Gérard Depardieu), con un sacco di frumento sulle spalle, incontra sulle scale la sua futura fidanzata, e non sa resistere al fascino di Anita, una Stefania Sandrelli strepitosamente bella, così tanto che anche un vescovo, passandole accanto, avrebbe certamente sollevato gli occhi dal breviario, e non gli occhi soltanto! Ma Olmo non si limita a guardarla: con indosso un sacco di 80 kg. – Micio lo sa, ma evidentemente Bertolucci no – tempesta di baci l’irresistibile Anita, sin quasi a un orgasmo, ma senza perdere l’aplomb del sacco! Una scena inverosimile sul piano realistico, ma estremamente evocativa sul piano filmico (e anche su quello fisiologico).


Sul “verismo hegeliano” di Bertolucci, consono a quello ispirativo di Bacchelli nel Mulino, tanto può bastare. Un ultimo aneddoto, che mi pare gustoso, prima di ringraziare Giuseppe e Micio per la conversazione e per il buon vino, riguarda la canzone che la mamma di Micio, Eugenia Arnoldi, esegue in una scena di Novecento, e che Bertolucci fece ripetere all’attrice-contadina, a riprese concluse, fin quando fu sicuro di averla a memoria mandata: “Quando bandiera rossa si cantava, / trenta franch all’ura se ciapava. / E adesso che se canta giovinezza, / se casca in terra dalla debulesa. / Va là va là Benito, te set ciavat pulito, / te ghet calat la paga, te ghet cresit el vitto.”
Tralasciamo altri aneddoti, egualmente gustosi ma troppo audaci e intimi da pubblicare, e ringraziamo Giuseppe e Micio brindando con loro alla salute e al buon fine anno prossimo venturo dei lettori affezionati di Cremonaoggi usciamo dalla cucina-sala riunioni della benemerita Lega (vedi sopra), dove sopra il camino splende di chiarore simbolico una riproduzione di Quarto stato del pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo, e ci affacciamo in giardino, al freddo nitido della sera dicembrina, scoprendo che su nel cielo, bianca e lucente di un suo tormentoso mistero, splende La luna (celebre pellicola del regista di Novecento). Ma questa è altra storia, altro film, altro racconto, che rimandiamo, se i lettori di oggi lo gradiranno, a un altro incontro.

Post scriptum: la firma non è un falso dell’autore vivente (Vittorio), perché effettivamente il testo è stato composto a quattro mani, da lui e dal coautore scomparso e nel mondo accademico italiano, sorprendentemente, poco compianto (Ugo Dotti). Il ricordo di Bernardo Bertolucci, di cui il professore era amico, quando e lui e il regista erano corpi animati e non ombre, è stato scritto dal nipote del grande petrarchista nello studio romano dello zio, usando la penna da cui sgorgò, in anni lontani, Vita di Petrarca e, di recente, l’introduzione e il commento alle Rerum Familiarium e alle Rerum Senilium per la collana Les Belles Lettres, poi le opere su Manzoni e su Machiavelli, le ineguagliate traduzioni da Orazio, Virgilio, Catullo (sulla traduzione di Lucrezio avremmo qualcosa da eccepire, ma non è questa la sede), i numerosi e densissimi articoli per la rivista Belfagor … Tanto basta per giustificare che, se Vittorio è la mano efficiente del testo, l’ispirazione e l’idea sono del prof. Ugo, al quale crediamo avrebbe fatto piacere leggere la sua firma.

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