Cultura

RUBRICA CULTURA - Sulla strada del CineChaplin inchieste filmiche di Ghisleri

Da sinistra, Luigi Ghisleri e una sua opera

di VITTORIO DOTTI

«Alla mia città, Cremona, sede di tanta bellezza, perché ne ritrovi la via». Mutuando l’incipit del bel libro sulla bellezza del teologo Vito Mancuso, offerto al suo/nostro paese, l’Italia, potrebbe esser questa la dedica con cui l’etnologo e fotografo cremonese Luigi Ghisleri porge idealmente il suo lascito artistico alla nostra campagna e alla nostra città, che tornerebbero a esser belle se i cittadini e chi li governa riscoprissero il gusto, etico ed estetico, della civiltà e se ritrovassero la via per opporsi al caos e alla degradazione.

I quattro documentari presentati martedì scorso nel d’essai dell’infaticabile Giorgio Brugnoli (“Porta Po e la fornace Frazzi”, “Cremona – il centro storico”, “La campagna cremonese nel 1971”, Orditura e tessitura del lino”), aggiungono un tassello importante alla conoscenza dell’opera di Luigi Ghisleri, espressa nei mirabili volumi fotografici: “Cascine”, edito dalla Libreria Ponchielli nel 1991, “Cremona tra città e campagna”, “Ritratti nel paesaggio”, “La crisi della cascina cremonese”, “La fabbrica contadina” e in alcuni altri pregevoli lavori di etnografia rurale e urbana.

Il valore testimoniale di questi documenti – come osserva lo storico dell’architettura Enrico Maria Ferrari – consiste nel «farci riflettere sullo spreco di territorio attuato negli ultimi decenni a causa dello sviluppo urbano della città di Cremona, espansa disordinatamente verso la campagna, alla quale ha sottratto i terreni più fertili. Il fenomeno ha prodotto, in alcuni casi, la saturazione dei terreni costruttibili e ha innescato la trasformazione delle cascine superstiti, previa demolizione e ricostruzione, in pseudovillaggi residenziali o in alloggi popolari a schiera. Le antiche cascine si traducono così in anonimi agglomerati, prodotto spurio (nel senso etimologico del termine) della nostra civiltà».

Nel dopoguerra, com’è noto, masse di persone si trasferirono dai contadi nelle città, lasciandosi cooptare dal regime disumano di un’urbanistica pianificata dai “pionieri dell’inciviltà” (Leonardo Borgese), disperdendo in pochi decenni un «patrimonio incommensurabile di tradizioni e sentimenti che custodivano una sapienza antica» (Luigi Ghisleri). Lo spopolamento delle aree verdi ha come esito che «le campagne si svuotano, abbandonando grandiosi edifici rurali ad un destino di decadenza; l’area urbana si espande a macchia d’olio sugli spazi circostanti; il centro città, che corrisponde al nucleo storico-monumentale, subisce l’aggressione scomposta della speculazione immobiliare» (dalla introduzione a “Il rosso e il verde”, a cura del comitato cittadino di Legambiente).

Questo dramma sociale, economico ed ecologico, estetico, esistenziale e umano, di cui noi siamo gli epigoni inconsapevoli, è affrontato da Ghisleri – sia nei lavori fotografici, sia nelle opere filmiche come pure negli scritti – senza vagheggiamenti nostalgici né manierismi estetizzanti, bensì con un rigore nitido, pretto, essenziale. L’etnografo percorre con la mente e con il corpo i poderi e i sentieri, frequenta le vie del centro cittadino, si avventura nei quartieri della periferia per incontrare le persone che vivono o han vissuto nelle cascine. Fa questo al fine di conoscere, per poi rappresentare, la dialettica dell’uso e dell’abbandono dei luoghi a partire dall’esperienza di chi li ha abitati. «Incomincio pian piano a capire che tutte le cose della cascina sono fatte con un criterio, non per bellezza, tutte le cose hanno un perché; per questo sono venuto a parlare con voi che avete sempre vissuto in cascina e sapete le cose, per capire, se no fotografo senza conoscere le cose». Quale più esplicita dichiarazione d’una modalità espressiva che è insieme oggettiva ed emotivamente coinvolgente, e che mi piace definire realismo empatico? L’etnologo, ispirato da una partecipe sensibilità percettiva e istruito dai suoi maestri contadini, ha raggiunto livelli altissimi soprattutto nella rappresentazione fotografica delle cascine, dei lavoratori agricoli e delle loro famiglie, innanzitutto perché condivideva emozionalmente il loro mondo, in secondo luogo perché profonda era la sua cultura estetica: conosceva bene August Sander, Walker Evans, Eugéne Atget; certamente aveva visto i lavori di Berengo Gardin e del primo Basilico; era prossimo al movimento milanese della fotografia impegnata del gruppo di Cesare Colombo; e naturalmente era parente prossimo dei cremonesi Aurelio Betri, Torquato Zambelli e del sociologo piadenese Giuseppe Morandi.

In un’occasione mi aveva raccontato di quanto la mostra di Bernd e Hilda Becher (rappresentanti della scuola documentaristica di Düsseldorf), visitata a Venezia all’inizio degli anni ’70, l’avesse entusiasmato. La fotografia è certamente l’ambito in cui Ghisleri eccelse di più, scegliendo come medium tecnico una meravigliosa fotocamera Plaubel 6 x 7, dotata di un’ottica Nikkor di micrometrica acutanza, che purtroppo non l’ha potuto accompagnare nell’esperienza filmica, della quale non si può tacere qualche rimarchevole difetto tecnico-espressivo, che tuttavia non sottrae ai documentari la vis pasoliniana di coinvolgere, anzi costringere alla riflessione. E seppure in Luigi non allignava l’ardore polemico e intellettualmente sfrontato del regista corsaro, ha ragione E. M. Ferrari ad accostarglielo, perché sicuramente anche Ghisleri «aveva visto coi suoi sensi il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione», e avrebbe reagito con indignazione, modulata però da un sorriso – da quel mite corsaro che era –, alle giuste parole di Borgese, di cui Luigi leggeva gl’interventi sul Corsera: «Con la cafonesca mania di correre in auto per comprare le sigarette lì all’angolo e di mal vivere pigiati dentro la cerchia delle antiche mura, non siete affatto moderni: siete medievali!».

 

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