Morì di sepsi dopo il parto Dall'ospedale, risarcimento di 750 mila euro
Maxi risarcimento di 750.000 euro da parte dell’ospedale di Cremona al marito e ai due figli di Daniela, la donna di 41 anni deceduta dopo il parto per shock settico. A processo, accusati di omicidio colposo, ci sono tre medici del reparto di Ginecologia.
Maxi risarcimento di 750.000 euro da parte dell’ospedale di Cremona al marito e ai due figli di Daniela, la donna di 41 anni deceduta dopo il parto per shock settico. A processo, accusati di omicidio colposo, ci sono tre medici del reparto di Ginecologia dell’ospedale di Cremona: il cremonese Alberto Rigolli, difeso dall’avvocato Paolo Vinci, del foro di Milano, Aldo Riccardi, della provincia di Pavia, assistito dall’avvocato Diego Munafò, di Milano, e Tazio Sacconi, piacentino residente a Cremona, difeso dall’avvocato Isabella Cantalupo.
Con il risarcimento della Compagnia assicurativa dell’ospedale, la parte civile esce dal procedimento giudiziario. A chiedere i danni era il marito della vittima, Rusi Slavov, 37 anni, liutaio di origini bulgare ma da anni residente a Cremona, assistito dall’avvocato Michela Soldi.
Il processo riprenderà il prossimo 30 novembre, quando il giudice Francesco Sora incaricherà un perito medico-legale di verificare se ci siano state responsabilità o meno da parte dei ginecologi.
Secondo l’accusa, i tre medici (Riccardi in qualità di primario, Sacconi e Rigolli come medici di guardia) avrebbero provocato la morte di Daniela, deceduta il 6 gennaio del 2014 “a causa dell’evoluzione di una sepsi batterica sfociata in shock settico irreversibile”. Il 3 e il 4 gennaio di due anni fa, presso il reparto di Ginecologia, i tre medici avevano avuto in cura la donna che il 30 dicembre del 2013 aveva partorito Christian, che purtroppo era nato morto. Secondo la procura, nei giorni successivi gli imputati non avrebbero riconosciuto i sintomi della paziente, “omettendo di richiedere una consulenza infettivologica urgente” e lasciando la donna “in una condizione di oggettivo difetto di assistenza, consistito in assenza di coordinazione della condotta medica, esitata nel mancato riconoscimento e valutazione dei chiari segni clinici che avrebbero consentito l’anticipazione diagnostica, già almeno 48 ore prima del decesso, della condizione di sepsi in atto”, una condizione che tra l’altro non si era ancora aggravata. Proprio per questo, secondo l’accusa, “un trattamento conforme alle linee guida avrebbe potuto controllare la malattia e impedire la morte della paziente”.
Sara Pizzorni