Lettere

Nove anni dalla morte
di Piergiorgio Welby

da Radicalicremona.it

Bob Dylan scelto come sottofondo per l’addio. La moglie. Gli amici salutati uno a uno con la flebile voce coperta dal rumore ritmico del ventilatore automatico. Così, il 20 dicembre di nove anni fa, moriva Piergiorgio Welby. Per molto tempo aveva chiesto alla politica e ai magistrati, dal letto dove lo aveva inchiodato dalla distrofia, il diritto ad andarsene, a farsi staccare le macchine che lo imprigionavano “in una vita che non è più vita”.
Ora, a raccontare Piergiorgio, arriva un film documentario di Francesco Andreotti e Livia Giunti. Un film nato quasi per caso, seguendo il volo di quei falchi pellegrini che Welby amava invidiandone la libertà. Una sorta di autobiografia, fatta con sensibilità e pudore in cui le parole per raccontare l’indicibile, la prigione che lentamente intrappola il tuo corpo mentre la mente e il pensiero continuano a viaggiare a velocità supersonica, sono tutte sue. Di Piergiorgio Welby. Un viaggio raccontato con la sua ironia, attraverso i suoi scritti e le sue poesie, con i filmini casalinghi a fotografare una quotidianità di affetto e allegria, gite e scampagnate nonostante tutto, segnate dalle risate di Mina, compagna di una vita sempre più stretta. Fino alla fine.
Il filo conduttore delle immagini che diventano storia parte dalla sua morte, pubblica, dai servizi dei telegiornali di mezzo mondo, dalle polemiche legali e non, dall’accusa di omicidio a Mario Riccio, l’anestesista cremonese che sfidando leggi e moralismi lo addormentò perché non soffrisse di soffocamento una volta tolto il respiratore, dai funerali religiosi negati perché aveva deciso di morire sfidando Dio. In pochi minuti viene riassunta quella lotta lunga anni. Poi è tutto Welby: è lui a raccontare, tramite la voce di Emanuele Vezzoli, il viaggio interiore e nella malattia, mentre scorrono le foto di famiglia, le immagini di un bambino spilungone e serio, poi giovane cacciatore che una mattina non riesce più a premere il grilletto del fucile e disperato chiede “Papà per favore sparami, voglio morire in piedi col sole negli occhi, non paralizzato in un letto”.
E dell’uomo conosciuto più per la battaglia sulla fine della vita, in questo documentario emergono sprazzi di arte e filosofia, giorni di pittura e musica, le ore difficili di un adolescente preso in giro in palestra per i suoi movimenti incontrollati, le notti in strada di giovane dai baffi e i capelli lunghi che parte per Amsterdam. Che cerca oblio, notti, vuoto, serenità, assenza di dolore nella siringa, in cerca di un overdose che lo allontani da “questo corpo che perde pezzi e non è più mio”.
Sono i suoi diari, i racconti, le parole sui blog a disegnare un’esistenza piena d’amore, nonostante tutto. “Perché non sono un depresso, amo la vita che è la donna che amo, una passeggiata, il vento sul viso, l’amico che ti delude. La morte mi fa orrore ma quello che mi è rimasto non è vita è solo il testardo accanimento a mantenere funzioni vitali”, scrive Piergiorgio al Presidente della Repubblica, a quelli di Camera e Senato perché la politica intervenga con una legge dando libertà di scelta a chi, come lui, è imprigionato dalla malattia, nutrito da un sondino nastro gastrico e di tutto il corpo ormai può muovere solo gli occhi.
Ma da quel letto combatte, sui blog, si iscrive ai Radicali e all’associazione Luca Coscioni. E il documentario lo segue anche quando camminare diventa un’illusione ma lui non rinuncia a tenersi collegato col mondo, a condividere quello che ama, a sposare, su una sedia a rotelle la donna della sua vita, la piccola Mina fatta di acciaio e sorrisi. Lei che accetta per amore anche la sua ultima definitiva decisione.
Sono passati nove anni dalla sua morte. Da quel momento nulla sul fronte della legalizzazione dell’eutanasia è cambiato, nemmeno il deposito di una proposta di legge di iniziativa popolare ha finora sortito effetti sul Parlamento.

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