Lettere

In discussione il Registro del testamento biologico, Ceraso: 'Molte criticità'

da Maria Vittoria Ceraso, Obiettivo Cremona con Perri

Lunedì prossimo (16 novembre) il Consiglio Comunale sarà chiamato a discutere e a votare l’istituzione del registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico), un documento nel quale una persona specifica quali cure sanitarie vorrebbe ricevere e quali no, nel caso non fosse più in grado di provvedere a se stessa a causa di malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili.
Sul tema del fine vita il Parlamento da anni non riesce a deliberare (sono circa undici le proposte di legge sul tema depositate in Parlamento e ancora ferme nelle commissione).
La sempre citata “Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo del 4.04.1997)”, da cui molti fanno discendere la legittimità del testamento biologico nel nostro Paese, non può ritenersi in vigore all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.
Pesa in questo senso il fatto che il Governo italiano, esercitando la legittima facoltà di decidere se dare o meno attuazione alla legge di autorizzazione alla ratifica del trattato in esame, non ha mai fino ad oggi perfezionato il procedimento (mancato deposito della legge di ratifica n.145 del 28 marzo 2001 presso il Consiglio d’Europa oltre alla mancata adozione dei decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi e alle norme della Convenzione).
Pertanto l’Italia non è ancora parte della Convenzione di Oviedo e di conseguenza la medesima non può produrre effetti giuridici vincolanti in Italia, in termini di diritti ed obblighi, anche sul tema del testamento biologico.
In questo contesto nazionale la Giunta Galimberti ha deciso di sostituirsi a Parlamento e Governo e prevedere l’istituzione di un registro che di fatto non avrà alcun fondamento normativo nel nostro ordinamento giuridico ma risponderà solo a logiche ideologiche tanto care soprattutto a una parte della maggioranza.
Personalmente ritengo che le dichiarazioni anticipate di trattamento, pensate per difendere la dignità delle persone negli stadi terminali della loro vita o nelle condizioni di estrema fragilità perché incapaci di intendere e di volere, sono uno strumento intrinsecamente inadeguato a tale scopo, se non addirittura inutile e pericoloso, perché il consenso alle cure, con esse espresso, non può mai essere realmente “informato”, in quanto proviene da soggetto che non conosce la particolare condizione sanitaria in cui potrebbe trovarsi in futuro, né è in grado di comprendere e valutare con cognizione di causa le innumerevoli e imprevedibili situazioni in cui potrebbe versare e di fronte alle quali cambiare radicalmente il suo giudizio.

Dunque, le suddette dichiarazioni, in quanto redatte “ora”, in normali condizione di salute, per avere efficacia “allora”, in un’eventuale situazione futura radicalmente diversa, non possono avere alcun effetto giuridico vincolante perché non vi è alcuna certezza che rispecchino l’effettiva volontà dell’incapace al momento in cui si verifica l’evento.
Senza contare l’inevitabile astrattezza di cui questi documenti soffrirebbero, un’astrattezza e genericità dovuta alla distanza, psicologica e temporale, tra la condizione in cui la dichiarazione viene redatta e la situazione reale di malattia in cui essa dovrebbe essere applicata.
L’altra importante criticità riguarda il loro linguaggio e la loro competenza. Poiché resta assai difficile per il paziente definire in maniera corretta le situazioni cliniche in riferimento alle quali intende fornire le dichiarazioni, questa situazione può essere fonte di ambiguità nelle indicazioni e, quindi, di dubbi nel momento della loro applicazione.
Ma soprattutto il testamento biologico intacca quell’imprescindibile alleanza terapeutica, costitutiva della relazione medico-paziente, rischiando di ledere l’autonomia professionale del medico il quale dovrebbe sentirsi sempre libero di seguire scelte coerenti con i valori della propria professione.
Se le dichiarazioni anticipate vanno collegate all’affermarsi di una cultura bioetica, che ha già efficacemente operato per l’introduzione del modello del consenso informato nella relazione medico-paziente, e per il superamento del paternalismo medico, il loro ambito di rilievo coincide con quello in cui il paziente cosciente può esprimere un consenso o un dissenso valido nei confronti delle indicazioni di trattamento che gli vengano prospettate.
In questo senso la scelta del trattamento medicosanitario deve essere condivisa dal medico e dal paziente rappresentando l’esito dello svolgersi di una relazione ispirata a canoni fondamentali e imprescindibili: l’informazione, la comunicazione, l’ascolto e il silenzio.
Ma se la decisione del medico dovesse essere ridotta ad una fredda e formale adesione integrale alla lettera di quanto espresso nelle dichiarazioni, si verrebbe a determinare un automatismo che, anche in quanto non dialogico, finirebbe per indebolire, se non vanificare, il valore non solo etico, ma anche medicoterapeutico, della prassi medica e per potenziarne il carattere burocratico.
Tutto ciò tenuto conto che l’incedere delle tecniche diagnostiche ha reso oggi più problematico il giudizio di irreversibilità o permanenza dello stato vegetativo: se in alcuni casi tale giudizio è sicuro (come nell’encefalopatia anossica), in altri si arresta ad una soglia di natura probabilistica, peraltro tipica dell’attuale stato della medicina contemporanea che impone al medico di assumere decisioni in condizioni costanti di relativa incertezza.
Il medico infatti non avrebbe mai la certezza che le dichiarazioni pregiudizialmente espresse in determinate circostanze e condizioni personali (spesse volte di pieno benessere psico-fisico) corrispondano alle volontà che il paziente manifesterebbe, qualora fosse capace di intendere e di volere, nel momento in cui si rendesse necessaria la prestazione terapeutica. Si determinerebbe il rischio, per il paziente, di essere deprivato, per una sua scelta legale obiettivamente improvvida, di un ausilio indispensabile che egli fondatamente potrebbe desiderare qualora la volontà potesse confrontarsi con la situazione concreta, che potrebbe essere caratterizzata dalla sopravvenienza di nuove acquisizioni scientifiche, di nuove tecniche di trattamento, tali da rendere curabile – o comunque diversamente curabile rispetto alle previsioni del paziente – una patologia precedentemente conosciuta come irrimediabile.

Sempre sullo stesso versante il regolamento da approvare introduce una figura ibrida, il fiduciario, quale unico soggetto abilitato ad interloquire con il medico, una specie di “guardiano” che, senza avere alcuna competenza, ha il compito di sorvegliare l’operato dei medici per evitare ciò che egli ritenga essere “accanimento”.

Alla luce di queste considerazioni mi pare lecito chiedersi come si potrà evitare il carattere “astratto” delle dichiarazioni anticipate e le inevitabili “ambiguità” dovute al linguaggio con cui vengono formulate, in specie quando il paziente non si faccia assistere, nella loro redazione, da un medico o da altro soggetto dotato di specifica competenza? Quali indicazioni operative possono essere contenute in questi documenti? Quale affidabilità può riconoscersi a tali documenti? Quale vincolatività devono possedere per il medico dal punto di vista deontologico e giuridico?
Queste e altre domande, che emergono continuamente nel dibattito in materia, non trovano evidentemente risposta alcuna nel regolamento relativo all’istituzione del registro del testamento biologico che la Giunta Galimberti proporrà di approvare al Consiglio Comunale, ma senza una organica e non equivoca risposta, il principio del rispetto per i desideri precedentemente espressi non potrà trovare pratica applicazione.
Solo un intervento legislativo del Parlamento darebbe ai medici chiare e non equivoche garanzie per quel che concerne la loro pratica professionale, specie se posta in essere in situazioni di carattere estremo e fornirebbe ai pazienti una ragionevole certezza di attuazione dei loro desideri.
Una normativa che precisi contenuti e limiti della funzione di garanzia nei confronti dei pazienti attribuita agli operatori sanitari, per restituire a questi ultimi serenità di giudizio ed aiutarli soprattutto a sfuggire a dilemmi deontologici e professionali altrimenti insolubili, che in alcuni casi li portano ad assumere comportamenti che essi ritengono doverosi e giustificati in coscienza (ma che potrebbero, in assenza di norme chiare ed esplicite, esser loro legalmente contestati, con gravi conseguenza sul piano umano e professionale), ma che in altri e nel maggior numero dei casi li inducono ad attenersi al principio della “massima cautela”, non per ragioni etiche e deontologiche, ma solo per meglio garantirsi dal punto di vista delle eventuali conseguenze legali dei loro atti.

In conclusione in assenza di una disciplina nazionale ampia ed esauriente, che come dimostrato in premessa non sembra una priorità di Governo e Parlamento, che risolva molte questioni tuttora aperte per quel che concerne la responsabilità medico-legale ed insieme che offra un sostegno giuridico alla pratica delle dichiarazioni anticipate, regolandone le procedure di attuazione, l’iniziative fai da te del Comune di Cremona risulta del tutto estemporanea e ideologica e non farà altro che creare ulteriore confusione tra i cittadini su temi così delicati che meritano la massima attenzione e cautela, portando la questione sul piano dello scontro politico fine a se stesso.

Maria Vittoria Ceraso, Capo gruppo Obiettivo Cremona con Perri

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