Cultura

Tra passato e futuro: note minime del processo civile

Nel dibattito politico italiano, il tema della giustizia è, da qualche tempo, sempre più presente. Al centro dell’attenzione è essenzialmente il processo penale, sia perché se ne parla, spesso strumentalmente, in relazione alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, sia perché è il processo penale che può incidere su un bene di eccezionale rilevanza quale è la libertà personale. Tuttavia, non deve essere trascurato il processo civile per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, il processo civile è inteso a dirimere le controversie fra privati. Potenzialmente, quindi, riguarda la gran parte dei consociati. Secondariamente, ad avviso di molti osservatori, le difficoltà e le lungaggini della giustizia civile costituiscono la causa non ultima che induce gli imprenditori stranieri a non investire in Italia (si può leggere, in proposito, il Rapporto sulla giustizia civile predisposto dall’OCSE). Sul processo civile mi sia consentita qualche riflessione personale. Alla fine di marzo del 1967, e cioè più di quarantasei anni fa, varcavo, per la prima volta, la soglia di Palazzo Persichelli ed iniziavo la pratica forense. Ebbi subito uno choc assistendo alle prime udienze civili. Ebbi la sensazione di trovarmi in un mercato, in cui si accavallavano le presenze degli avvocati negli uffici dei giudici. Tutto ciò mi appariva molto diverso dal processo civile che avevo studiato sotto la guida di un illustre maestro, di origine cremonese, Vittorio Denti che, negli anni successivi, ebbi modo di apprezzare, oltre che come studioso, come grandissimo avvocato e che mi onorò della sua stima ed amicizia.

Il processo che avevo studiato era quello delineato dal Codice di procedura civile del 1942, così come successivamente modificato nel 1950. Era un processo in cui il dominus era il Giudice istruttore, sotto il controllo del Collegio, e che doveva essere improntato ai principi, teorizzati dal grande processualista Giuseppe Chiovenda, di oralità, concentrazione, immediatezza.

Mi accorsi ben presto che la realtà era molto diversa: il giudice ben di rado conosceva il processo prima di decidere sull’ammissibilità e rilevanza delle prove ed il processo non era orale ma prevalentemente scritto; non era concentrato ma si diluiva in una lunghissima serie di udienze. Infine, la decisione non dava in alcun modo una sensazione di immediatezza.

Tuttavia, negli anni sessanta e, all’inizio degli anni settanta, il processo civile era sufficientemente funzionale rispetto alle esigenze sociali dell’epoca. I problemi iniziarono negli anni settanta quando, sotto la spinta del fenomeno del terrorismo, si disse che bisognava, in ogni caso, “privilegiare il penale”. I magistrati impegnati nel settore penale che, negli anni cinquanta, erano circa un terzo del totale, crebbero in breve tempo sino alla metà.

La crisi del processo civile, a quel punto, era inevitabile e, purtroppo, irreversibile. Le riforme che, a partire dagli anni novanta, si sono susseguite, quasi con cadenza annuale, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Modifiche affrettate ed a macchia di leopardo hanno demolito l’intima coerenza del codice del 1942 ed hanno creato una situazione di costante incertezza interpretativa delle norme processuali.

Il modello di processo inizialmente delineato dal codice del 1942 ebbe vita breve. Terminata la guerra, si ebbe un grande movimento di opinione, che vide in prima fila l’avvocatura, per il ritorno al codice del 1865, che era considerato di ispirazione liberale, in contrasto con l’impostazione autoritaria del codice del 1942. Da questo movimento di opinione nacque la novella del 1950, che ridusse il ruolo del Giudice istruttore a favore dell’iniziativa delle parti e abolì il sistema delle preclusioni introdotto nel 1942.

Ma, al di là di queste vicende storiche, il modello di processo delineato dal codice del 1942 non poteva funzionare non tanto perchè frutto di una ispirazione autoritaria, quanto per insuperabili ragioni organizzative. Infatti, se il Giudice istruttore doveva essere il dominus del processo, era indispensabile che potesse avere in concreto il controllo dei processi a lui affidati. Si diceva (io, anche se vecchio, non posso dirlo per esperienza diretta) che, perchè il processo del 1942 potesse funzionare, ogni Giudice non poteva avere più di una cinquantina di fascicoli a lui affidati. Se pensiamo, invece, come in taluni Tribunali, ad esempio Brescia, il numero medio dei fascicoli assegnati a ciascun Giudice istruttore è di circa 1.500, ci accorgiamo di come l’idea di un Giudice istruttore dominus del processo (e di un processo improntato ai principi di oralità, concentrazione ed immediatezza), si risolva in una pura astrazione.

Effetti parzialmente positivi ha avuto, questo va riconosciuto, l’introduzione del rito del lavoro che risale al 1973, ed in cui i poteri di iniziativa delle parti sono temperati dai poteri officiosi del Giudice. Tuttavia, soprattutto dopo il 1998, allorquando la materia del pubblico impiego fu affidata ai Giudice del lavoro, anche  il modello entrò in crisi, a causa dell’elevato contenzioso.

Il problema, come mi pare di avere già accennato, non è tanto nel modello di processo, quanto nel numero di cause che è ingestibile da parte delle attuali strutture e dell’attuale numero di magistrati addetti al settore civile.

Vi sono stati diversi tentativi per deflazionare il contenzioso, ma non mi pare che abbiano ottenuto un particolare successo.

In primo luogo per un motivo culturale: l’Italia sembra la patria della “litigation”; la mediazione sembra estranea alla nostra cultura, che in tanti casi non ricerca il contemperamento degli interessi, ma vuole l’annientamento dell’avversario. Inoltre tentativi come quello dell’introduzione dei magistrati onorari e della mediazione, recentemente reintrodotta dopo essere stata eliminata dalla Corte costituzionale, non hanno sinora ottenuto successo perchè gli italiani, in primo luogo gli avvocati, hanno fiducia nel magistrato togato, cui, anche nel subconscio, riconoscono terzietà e competenza, mentre diffidano degli estranei all’ordine giudiziario.

Per quanto riguarda l’arbitrato, va detto che esso costituisce un prodotto, come si suol dire, “di nicchia”: infatti è molto costoso e si adatta prevalentemente a controversie di assai elevato valore economico.

Come ho già detto, il vero nodo da sciogliere della giustizia civile è la quantità del contenzioso. Si possono introdurre tutti gli accorgimenti tecnici che si vogliono, si può introdurre un rigidissimo sistema di preclusioni, ma il collo di bottiglia del processo è rappresentato dalla redazione delle sentenze, atteso che nessun magistrato può materialmente scrivere più di un certo numero di sentenze all’anno, numero molto ridotto rispetto al contenzioso pendente.

Come puro esercizio intellettuale si possono ipotizzare modelli alternativi di processo, rispetto a quello esistente. Vorrei accennare a due modelli, che hanno ciascuno pregi e difetti.

Il primo modello è quello previsto dal Regolamento di procedura applicato davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. E’ un modello assolutamente garantista, distingue una fase scritta da una fase orale, è rispettoso al massimo del principio del contraddittorio, garantisce l’interesse pubblico con l’intervento obbligatorio in giudizio di una parte imparziale, e cioè l’Avvocato generale (che ha un ruolo non dissimile da quello del Pubblico ministero nei giudizi civili davanti alla nostra Corte di Cassazione). Non è tuttavia ipotizzabile l’introduzione di un siffatto modello. Esso può funzionare davanti alla Corte di Giustizia, dove il contenzioso è assai ridotto e le questioni che devono essere decise sono essenzialmente di diritto e non già di fatto. Non può certo funzionare nella generalità dei casi.

Un altro modello, alla cui introduzione nell’ambito della giustizia civile mi pare si potrebbe pensare con attenzione, è quello del giudizio cautelare amministrativo. Si tratta di un rito molto veloce e deformalizzato, atteso che le parti sono convocate in camera di consiglio davanti al Collegio nel giro di qualche settimana dal momento del deposito del ricorso. In camera di consiglio le parti, sempre che non vogliano rimettersi agli scritti, discutono brevemente il ricorso e il Collegio decide con ordinanza succintamente motivata. La decisione è pressochè immediata, atteso che l’ordinanza viene depositata al massimo due o tre giorni dopo la discussione in camera di consiglio.

L’ordinanza è impugnabile davanti al Consiglio di Stato, anche se l’impugnazione non è statisticamente molto frequente. In gran parte dei casi le parti si acquietano di fronte alla decisione del giudice ed accettano l’ordinanza, tanto è vero che gran parte dei ricorsi viene dichiarata perenta dopo cinque anni dalla camera di consiglio, con la conseguenza che l’arretrato esistente, apparentemente colossale, è in molti casi del tutto fittizio.

L’adozione di questo modello, tuttavia, richiederebbe agli avvocati un forte cambiamento di mentalità. I ristretti tempi per la decisione in camera di consiglio impongono, infatti, all’avvocato di sparare subito tutte le sue cartucce, arrivando anche a prevedere quali possono essere le difese avversarie, confutandole in anticipo. Inoltre, la consulenza tecnica e la prova testimoniale, anche se astrattamente ammissibili, sono assai rare nella pratica, con la conseguenza che è privilegiata la prova documentale, al contrario di quanto avviene sia nel processo civile che nel processo penale.

La prassi della discussione prevede, inoltre, che il Collegio ponga delle domande agli avvocati. La discussione può risolversi, per l’avvocato, in una sorta di esame, a cui bisogna giungere assolutamente ben preparati. Viene poi da dire che, proprio in questo modello, probabilmente trovano concreta attuazione i principi di Chiovenda dell’oralità, della concentrazione, dell’immediatezza.

E’ da ricordare, infine, che un sistema siffatto, supportato da una buona organizzazione del lavoro (come la fissazione nella medesima udienza di ricorsi simili), è fisiologicamente contrario alla formazione dell’arretrato. Pensiamo, infatti, che per quanto concerne il TAR di Brescia, da cui Cremona dipende, vengono mediamente discussi e decisi, con ordinanza cautelare, dai quaranta ai cinquanta ricorsi per udienza, con un numero di quattro udienze mensili, fatta eccezione per il periodo estivo ed il periodo natalizio.

(*) Il testo che precede costituisce la rielaborazione dell’intervento svolto in occasione della tavola rotonda sul tema “Esiste ancora in Italia il processo accusatorio?” tenutasi il giorno 11 ottobre 2013.

Antonino Rizzo

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