Una crisi che viene da lontano
La sera del terzo giorno lo psicodramma è finito. Ma, come ha scritto Lucia Annunziata, la drammatica ed inattesa rielezione di Napolitano, ha sancito il “default” del sistema.
Una intera classe politica si è rivelata impari rispetto alle responsabilità alla stessa affidate e del tutto incapace di scegliere un Presidente della Repubblica con le caratteristiche che si richiedono per ricoprire l’alta carica. Eppure non mancavano, fra i possibili candidati, personalità di statura internazionale, di esperienza politica, di alto livello culturale e di assoluta integrità morale.
Ma questa classe politica imbelle si è trovata unita nel chiedere al quasi nonagenario Napolitano il sacrificio (che a Napolitano deve essere umanamente costato moltissimo) di accettare un nuovo mandato.
Per senso di responsabilità ed attaccamento alle istituzioni, Napolitano ha accettato la rielezione, fatto che non ha precedenti nella storia repubblicana.
L’impotenza del Parlamento ha però, indubbiamente, esaltato il ruolo del Presidente che, d’ora in poi, alla riottosità delle forze politiche, potrà opporre, oltre al suo potere di sciogliere le Camere, anche la possibilità di rassegnare, in ogni momento, le sue dimissioni. E questo Napolitano lo ha fatto chiaramente intendere nel discorso di insediamento. Si conferma, quindi, nel concreto, la tesi già prospettata da alcuni costituzionalisti per cui il ruolo del Presidente, nell’ordinamento costituzionale, possiede una sorta di “vis expansiva” che, nei momenti di crisi ed instabilità politica, esalta la posizione del Presidente quale rappresentante dell’unità nazionale.
Anche se in un contesto drammatico, in cui pareva che, a partire da quello del Partito democratico, i gruppi parlamentari fossero destinati a disintegrarsi, questa elezione presidenziale si è risolta al sesto scrutinio, in un tempo cioè relativamente breve. Si è rimasti molto lontani dai tempi di alcune elezioni presidenziali del passato. Per l’elezione di Leone nel 1971 occorsero 23 scrutini; 21 ne servirono nel 1964 per eleggere Saragat; sia Pertini nel 1985 che Scalfaro nel 1992 furono eletti al sedicesimo scrutinio; per eleggere Segni, nel 1962, servirono 9 scrutini. Anche nella IV Repubblica francese (che prevedeva un sistema di elezione del Presidente della Repubblica simile al nostro), nel 1953, Rene Coty fu eletto solo al tredicesimo scrutinio.
Tutte queste elezioni, anche se lontane nel tempo, furono traumatiche. All’epoca, tuttavia, le istituzioni repubblicane avevano una solidità che oggi si è perduta.
In questa elezione, poi, i parlamentari ed i rappresentanti regionali hanno mostrato ben poca dignità istituzionale e sono apparsi inconsapevoli del loro ruolo. Vi sono stati voti assolutamente improbabili (basterà citare quelli a Valeria Marini e Rocco Siffredi). Parlamentari e rappresentanti regionali si sono poi fatti beffe della segretezza del voto, rendendo il loro voto riconoscibile e vantandosene davanti alle telecamere, nonché abusando della prassi dell’astensione, giudicata con perplessità da parte della dottrina costituzionalistica.
Quanto è accaduto induce, quindi, ad una riflessione: ci si può chiedere se, in luogo della elezione parlamentare, che così tante volte si è rivelata traumatica, non sarebbe il caso di introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
Secondo l’opinione corrente, l’elezione diretta è legata all’esistenza di una forma di governo presidenziale (come quella degli Stati Uniti) o semi-presidenziale (come quella della Francia della V Repubblica).
In realtà, la elezione diretta è compatibile con una forma di governo parlamentare come quella esistente in Italia. Nell’ambito dell’Unione europea, solo la Germania e la Grecia hanno una modalità di elezione del Presidente della Repubblica simile a quella del nostro paese. Portogallo, Austria, Irlanda, Finlandia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, che pure hanno un regime sostanzialmente di tipo parlamentare, eleggono il Presidente della Repubblica con il voto popolare diretto.
Nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente, emerse chiaramente che la forma di governo più adatta alla società italiana era quella parlamentare, nel solco della tradizione liberale prefascista. Solo il piccolo Partito d’Azione, per bocca soprattutto di Piero Calamandrei, si pronunciò per un sistema presidenziale. Alla scelta della forma di governo, fu subordinata quella del metodo di elezione del Capo dello Stato. L’esperienza della repubblica di Weimar condizionò la dottrina costituzionalistica e le scelte dell’Assemblea Costituente. L’esito tragico dell’esperienza weimariana (che si concluse con l’ascesa al potere di Hitler) rendeva assai diffidenti i costituenti nei confronti della forma di governo, introdotta dalla costituzione tedesca del 1919, che prevedeva la doppia legittimazione del Parlamento (eletto con il sistema proporzionale) e del Capo dello Stato (eletto con un sistema che al primo turno prescriveva la maggioranza assoluta dei voti e al secondo turno la maggioranza relativa). Il dualismo insito in quel sistema venne considerato negativamente, almeno fino a quando non fu ripreso dalla Costituzione francese del 1958.
Di conseguenza, l’elezione da parte del Parlamento, sebbene non fosse l’unica possibile, risultava la più coerente con la forma di governo prescelta, mentre l’elezione da parte del popolo veniva considerata incompatibile con il ruolo del Presidente, al quale non si voleva attribuire un potere di governo.
A sessantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la situazione è cambiata. E’ cambiata in Europa, dove lo spettro di Weimar si è dissolto. Ma è cambiata soprattutto in Italia.
Come in Francia la crisi algerina determinò il passaggio, nel volgere di qualche mese, dalla IV alla V Repubblica, così pure nel nostro paese, la crisi politica, che si è progressivamente aggravata negli ultimi decenni, fa sì che la figura del Presidente della Repubblica si stagli sempre di più come la figura centrale nell’equilibrio delle istituzioni, sì da richiedere quella forte legittimazione che gli deriverebbe dall’elezione popolare.
Il cambiamento del sistema di elezione del Presidente della Repubblica e, in prospettiva, la introduzione, sul modello francese, di un regime semi-presidenziale ha sempre suscitato forti diffidenze.
Molti, soprattutto a sinistra, usano ripetere, come un mantra, che la Costituzione italiana è la più bella del mondo. Ma una Costituzione non deve essere “bella”; è sufficiente sia, quanto al sistema di governo, “efficace”, ovvero “funzionale”.
E costoro probabilmente ben poco conoscono della nascita della Costituzione italiana, e del contesto storico in cui avvenne e della sua interpretazione, soprattutto ad opera della giurisprudenza della Corte Costituzionale. E probabilmente ignorano del tutto le altre Costituzioni cui quella italiana si ispirò e quelle con cui oggi può essere confrontata.
La Costituzione non è un feticcio, ma un testo legislativo che va conosciuto e studiato (e, se occorre, modificato con grande parsimonia).
Il modo di elezione del Presidente della Repubblica è, appunto, una delle possibili modifiche a cui pensare.
Antonino Rizzo
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