Cronaca

Restituire lo scettro al principe

Il politologo Gianfranco Pasquino che, in anni lontani, fu anche senatore della Repubblica (ed ebbe quindi modo ci vivere come protagonista all’interno delle istituzioni) scrisse, nel 1985, un saggio sulle riforme istituzionali, dal titolo suggestivo “Restituire lo scettro al principe”.

Il principe è, evidentemente, il popolo sovrano, gli elettori, cui il potere di scelta è stato sottratto dai partiti.

L’usurpazione della sovranità popolare da parte dei partiti è caratteristica del sistema politico italiano, ovvero di quella che si suole chiamare la “costituzione materiale” del nostro paese. Al 1949, infatti, risale il termine “partitocrazia” coniato dal costituzionalista Giuseppe Maranini nella sua prolusione all’Università di Firenze dal titolo “Governo parlamentare e partitocrazia”.

Il fenomeno si è, tuttavia, aggravato a partire dal 2006, quando entrò in vigore l’attuale legge elettorale per la Camera ed il Senato, la Legge 29 dicembre 2005 n. 270, comunemente conosciuta con la definizione di “porcellum”, frutto della fantasia del politologo Giovanni Sartori.

Il “porcellum” non ha mai goduto di buona stampa ed è sempre stato sottoposto a feroci critiche sia da parte di giuristi che di politologi. Ma non si è mai riusciti ad eliminarlo, in quanto del tutto funzionale agli interessi, sovente inconfessabili, delle forze politiche e dei loro ristretti gruppi dirigenti.

Due furono i tentativi di modificare il “porcellum” attraverso lo strumento del referendum. Nel 2009, grazie anche all’ostilità di tutti i partiti, un referendum inteso a cancellare alcune parti della legge, per modificarne il significato, non raggiunse il quorum.

Due successive richieste di referendum che miravano alla abolizione integrale della legge (per far rivivere la legge precedente) furono dichiarate inammissibili dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 12 gennaio 2012 n. 13, in quanto i quesiti referendari avrebbero lasciato una situazione di vuoto legislativo qualora approvati dal voto.

I difetti del “porcellum” si sono fatti ancor più evidenti dopo l’esito delle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013.

Oltre ai difetti che derivano dall’impossibilità, per l’elettore, di esprimere, in qualsiasi forma, la sua scelta per un candidato, sono emersi, in modo prepotente, i limiti del premio di maggioranza, previsto dalla legge (si dice, da parte dei teorici della partitocrazia, per garantire la governabilità). Di fronte a tre schieramenti non dissimili quanto a forza numerica, al Senato il premio non ha funzionato. I premi, calcolati per regione, si sono, infatti, neutralizzati a vicenda.

Alla Camera, invece, la coalizione risultata maggioritaria, con circa il trenta per cento dei voti, ha ottenuto 340 seggi, e cioè quasi il doppio di quali che avrebbe potuto conseguire secondo un riparto proporzionale.

In altri termini, il voto degli elettori della coalizione vincente ha avuto l’effetto di valere per due, mentre il voto attribuito a tutte le altre forze politiche valeva solo uno.

Ciò appare stridere in modo palese con il dettato dell’articolo 48 della Costituzione che prevede, fra l’altro, come il voto debba essere “eguale”.

Secondo la dottrina costituzionalistica, il principio di eguaglianza del voto deve essere rigorosamente rispettato “in entrata”, con la conseguenza dell’assoluto divieto di ogni forma di voto plurimo o multiplo (pur presente in passato nei sistemi elettorali di altri paesi). Non altrettanto rigida deve essere l’eguaglianza del voto “in uscita”, ovvero nel processo di trasformazione dei voti in seggi. La Corte Costituzionale (nella sentenza 11 luglio 1961 n. 43) ha chiarito che il principio di eguaglianza del voto non si estende al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore.

Detto risultato “dipende, invece, esclusivamente dal sistema elettorale che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari”.

Nella Costituzione, infatti, non è espresso il principio proporzionalistico, anche se tale principio può intuirsi come sotteso a varie disposizioni costituzionali.

La possibilità di introdurre una disciplina elettorale maggioritaria trova però un limite nel principio di ragionevolezza. E’, in particolare, problematica, sotto il principio della legittimità costituzionale, una legislazione, come quella prevista per la Camera dei Deputati, che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti o di seggi. Dubbi in questo senso sono stati espressi dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 15, 16, 17 del 30 gennaio 2008 (relative ai referendum del 2009) ed, ancora, dal Presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo nella sua relazione annuale sull’attività del giudice delle leggi tenuta il giorno 12 aprile 2013.

L’irragionevolezza della disciplina prevista dal “porcellum” trova conferma nel fatto che due famose leggi maggioritarie del passato, pur avendo suscitato, a suo tempo, polemiche roventi, prevedevano, per l’applicazione del premio di maggioranza, il raggiungimento di una soglia minima di voti. Si tratta della Legge “Acerbo” (Legge 18 novembre 1923, n. 2444, voluta da Mussolini per assicurare ai fascisti una solida maggioranza) e della legge “truffa” (Legge 31 marzo 1953, n. 148, contro la cui approvazione i comunisti condussero un’epica battaglia, e che poi non fu applicata, per il mancato raggiungimento della soglia prevista, che era allora del cinquanta per cento).

Il meccanismo previsto dall’ordinamento per la proposizione delle questioni di legittimità costituzionale (di cui già ho parlato in un articolo pubblicato mesi fa su questo sito “La Corte Costituzionale voce viva della Costituzione”) rende assai difficile che il “porcellum” possa essere sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale.

La responsabilità di “restituire lo scettro al principe”, eliminando il “porcellum” dall’ordinamento, compete, in conclusione, al Parlamento. La riforma elettorale deve contribuire a togliere ai partiti, per restituirlo agli elettori, quel che essi hanno tolto allo Stato e alla società, trasformando il sistema proporzionale in partitocrazia.

Ma non so se, anche sotto la spinta della grave crisi morale, sociale, economica e politica del paese, le forze politiche avranno il coraggio di compiere le scelte che pure, da parte di molti, si ritengono non più dilazionabili.

Come si suol dire, non si può pretendere che il tacchino festeggi il Natale.

Antonino Rizzo

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