Kokopelli, i semi della discordia
Kokopelli è il nome di una divinità degli indiani Navajo, protettrice della fertilità. Kokopelli, forse per questa ragione, è anche il nome di una associazione, operante nell’ambito agricolo, che ha dato origine ad una controversia, conclusasi con una sentenza, che ha fatto discutere, della Corte di Giustizia dell’Unione europea (la sentenza 12 luglio 2012, in causa C-59/11). La controversia, che ha dato origine alla causa, riguarda la commercializzazione di sementi per ortaggi.
La direttiva in materia, la 2002/55/CE, assoggetta la commercializzazione di queste sementi alla previa ammissione delle loro varietà in almeno uno Stato membro. Una varietà è ammessa nei cataloghi ufficiali solo ove sia distinta (se indipendentemente dall’origine della variazione iniziale da cui proviene, si distingue per uno o più caratteri importanti da qualsiasi altra varietà), stabile (è tale se rimane conforme alla definizione dei suoi caratteri essenziali dopo le riproduzioni successive o alla fine di ogni ciclo) e sufficientemente omogenea (tale è se le piante che la compongono, tenendo presente le particolarità del loro sistema di riproduzione, sono simili o geneticamente identiche per l’insieme delle caratteristiche considerate a tal fine).
Tuttavia un’altra direttiva, la 2009/145/CE, prevede alcune deroghe a tale regime di ammissione nei cataloghi nazionali di varietà da conservazione e le varietà sviluppate per la coltivazione in condizioni particolari.
Come risulta dal comunicato stampa della Corte di Giustizia, emesso a commento della sentenza, con sentenza del 14 gennaio 2008, il Tribunale di Nancy (Francia) condannava l’associazione senza scopo di lucro Kokopelli a risarcire all’impresa di sementi Graines Baumaux i danni per concorrenza sleale. Tale giudice constatava che la Kokopelli e la Baumaux operavano nel settore dei semi antichi o da collezione, che esse commercializzavano, tra gli altri, 233 prodotti identici o analoghi e che si rivolgevano alla medesima clientela di coltivatori dilettanti ed erano dunque in una situazione di concorrenza. Esso ha, pertanto, considerato che la Kokopelli agiva in concorrenza sleale, mettendo in vendita sementi orticole non figuranti né nel catalogo francese né nel catalogo comunitario delle varietà delle specie di ortaggi.
La Kokopelli impugnava tale sentenza dinanzi alla Corte d’appello di Nancy, la quale chiedeva alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla validità della direttiva relativa alla commercializzazione delle sementi di ortaggi e di quella che prevede talune deroghe per le “varietà da conservazione” e le “varietà sviluppate per la coltivazione in condizioni particolari”.
Due erano i punti sollevati da Kokopelli alla Corte d’appello e, quindi, alla Corte di Giustizia. Se la normativa sulla commercializzazione delle sementi di specie orticole (direttiva 2002/55) e delle varietà da conservazione (direttiva 2009/149) di specie orticole ledono la libertà di commercio e se le stesse direttive sono in contrasto con la conservazione della diversità agricola e, in particolare, con gli obblighi contenuti nel Trattato FAO sulle risorse genetiche vegetali per l’agricoltura e l’alimentazione. La Corte ha riconosciuto la validità della normativa sementiera e ha ritenuto che favorisca, anziché ledere, la libertà di esercitare un’attività economica, garantendo a tutte le imprese un terreno comune su cui competere e al tempo stesso venendo incontro all’obiettivo generale di aumentare la produttività dell’agricoltura. E, inoltre, ha affermato che la normativa attuale è sufficiente come tutela della biodiversità coltivata, in virtù dell’esistenza del catalogo specifico sulle varietà da conservazione.
Varie pubblicazioni ambientaliste hanno giudicato tale sentenza come una sconfitta delle associazioni volontarie (come la Kokopelli) impegnate nella salvaguardia delle varietà delle piante antiche, considerate l’unica alternativa alle sementi industriali ed agli OGM.
In realtà le sementi tradizionali non sono state messe al bando, così come affermato da un’interpretazione ideologica ed estremista della sentenza. Così come previsto dalle direttive sottoposte all’esame della Corte di Giustizia, la commercializzazione delle “varietà antiche”, sia pure a determinate condizioni, è consentita. Con la conseguenza che la biodiversità, tutelata dal Trattato della FAO (l’organizzazione dell’ONU per l’alimentazione e l’agricoltura), cui hanno aderito sia l’Unione europea che gli Stati membri, non è a rischio.
Il Ministero delle Politiche agricole, poche settimane dopo la pubblicazione della sentenza, ha chiarito che quanto disposto dalla Corte di Giustizia, e cioè l’obbligo di iscrizione al registro ufficiale comunitario rappresenta un elemento di garanzia fondamentale, sia per i produttori agricoli che per i consumatori, in quanto un’autorità pubblica garantisce le caratteristiche delle varietà iscritte.
Il Ministero concludeva affermando che non è dunque corretto sostenere che la sentenza della Corte di Giustizia limiti la possibilità di commercializzazione e quindi di coltivazione di varietà tradizionali ed antiche. Così come non è corretto affermare che si debbano sostenere alti costi per ottenere la registrazione di tali varietà nel catalogo comunitario e che occorrano lunghi tempi di attesa per la registrazione.
Antonino Rizzo
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