Spettacolo

Si conclude col verdiano Stiffelio la stagione lirica al Teatro Regio di Parma

Si conclude col verdiano Stiffelio la stagione lirica del Teatro Regio di Parma, quest’anno ridotta a due soli titoli a motivo delle forti difficoltà economiche e politiche nelle quali versano sia l’istituzione che l’intera città.

L’opera del grande bussetano andò in scena per la prima volta a Trieste nel novembre del 1850 e, di lì a poco, scomparve dai repertori per quasi un secolo. Ebbe infatti ad affrontare problemi di censura, essenzialmente a motivo dell’argomento un po’ scabroso sul quale era imperniata: il tradimento e il dramma coniugale ad esso connesso. Soltanto alla fine del 1968 infine, l’Istituto di Studi Verdiani ne recuperò la partitura orchestrale della quale si erano perse le tracce e il lavoro fu ripreso proprio a Parma, sempre nel 1968, per la direzione di Peter Maag.

Nella presente edizione emiliana, per la quale ci si è avvalsi dell’edizione critica curata da Kathleen Kuzmick Hansell, la bacchetta era affidata ad Andrea Battistoni, maestro veronese impegnatosi con foga per rendere l’atmosfera tutt’altro che serena della vicenda. L’esecuzione è parsa diligente e caratterizzata da alcuni validi momenti, anche se la giovane età e la mancanza di una sufficiente pratica del palcoscenico si sono posti come ostacoli insormontabili a una lettura pienamente coerente dell’opera. In particolare le ridondanze sonore suggerite all’orchestra, un po’ sopra le righe, talora hanno infatti compromesso l’equilibrio degli insiemi vocali. Le potenzialità dell’artista sono evidenti, ma al giovane direttore si rendono necessari ulteriore tempi di riflessione e maturazione.

Serata positiva per il tenore Roberto Aronica, nei panni del ministro protagonista della vicenda, che ha esibito un potente registro vocale, efficace soprattutto nella zona centrale e bassa, e in grado di rendere veritiera la dimensione eroica del personaggio. Stiffelio risulta una figura tutt’altro che semplice da proporre per quel suo duplice aspetto ora riflessivo, ora spirituale, ma Aronica si è mostrato generalmente versatile e a proprio agio nella parte, nonostante qualche momento di malsicuro appoggio e alcune dinamiche non perfette.

La Lina di Yu Guanquin, già applaudita sacerdotessa nella precedente Aida, non ha deluso le aspettative per timbro, colore e gusto interpretativo. A dispetto di un vibrato inopportuno emerso qua e là, la buona musicalità del soprano e le sue capacità drammatiche hanno evidenziato egregiamente i conflitti interiori della sfortunata moglie del ministro assasveriano, risultata encomiabile nella preghiera del primo atto «A te ascenda, oh Dio clemente!».

Il conte di Stankar, uno dei numerosi padri verdiani, era il baritono Roberto Frontali. Cantante dalla pregevole emissione e disinvolto scenicamente, è stato in grado di plasmare con continuità e buon colore il personaggio interpretato. Efficace l’andante con espressione «Lina pensai che un angelo», così come l’esuberante impegnativa cabaletta «O gioia inesprimibile», penalizzata tuttavia da una certa invadenza dell’orchestra.

Funzionale il resto del cast, con un credibile Jorg, il georgiano George Andguladze, e un corretto e spigliato Gabriele Mangione nei panni di Raffaele.

L’abilità del coro preparato da Martino Faggiani è emersa soprattutto nella scena interna al termine del secondo atto. Suggestivi i versi sottovoce accompagnati dall’organo «Non punirmi Signor», centrati per colore, intonazione e ritmo. Gradevole la regia di Guy Montavon, così come le scene di Francesco Calcagnini. Successo per tutti gli interpreti.

Paola Cirani

 

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