Cronaca

Mario Coppetti, una "full immersion" nelle vicende politiche degli ultimi quaranta anni

Va subito premesso che, alla lodevole iniziativa dell’Associazione “Visioni Contemporanee”, diretta da Roberto Vitali, ha aderito, un, per quanto fisicamente possa consentire un saloncino, folto pubblico. Tra questi, significativamente, i titolari delle segreterie provinciali  dei tre partiti di massa degli anni ottanta; ma, semplice constatazione, nessun esponente in carriera dei movimenti della cosiddetta seconda repubblica.
Evidentemente, l’opportunità di una dotta, obiettiva, fattuale rivisitazione delle circostanze e dei passaggi che incardinarono il pregresso mezzo secolo di vita politico-istituzionale è ritenuta una sinecura negli scenari attuali. Non si scoraggi il buon Vitali; ma continui nella sua mission di arricchimento della memoria storica, salvando le testimonianze che, diversamente, andrebbero disperse.
Il tema della conferenza avrebbe riguardato, letteralmente, le vicende che, nel gennaio 1947, videro la formazione del Partito Socialdemocratico, indotta dalla scissione socialista operata dal leader della corrente anticomunista, Giuseppe Saragat. Nella realtà l’esposizione, durata più di un’ora, ha rappresentato una galoppata nella vita politica ed istituzionale, interna ed internazionale, lunga quasi un secolo.
Darne, nel format imposto di una testata telematica, anche semplicemente un breve estratto diventa quasi impossibile. Ci limiteremo ad alcune considerazioni essenziali, che partono, prevalentemente, dall’impulso a porre rimedio ai danni delle vulgate amplificate dal sedime del tempo trascorso e dall’incoercibile tentazione a  strumentalizzare la storia ad usum delphini.
Se è vero, infatti, che Giuseppe Saragat (eminente esponente socialista, ambasciatore d’Italia a Parigi, Presidente dell’Assemblea Costituente, più volte ministro ed, infine, Capo dello Stato) ha, tutto sommato, assistito ad un raccolto striminzito della sua promettente e copiosa seminagione, va sfata la deformazione della sua testimonianza.
Saragat, finito nel tritacarne delle condanne dogmatiche di Togliatti, fu tutt’altro che un “venduto”. L’impostazione del suo apporto teorico, plasmata a contatto con i grandi del pensiero socialista Gobetti, Treves, Rosselli, Turati, fu, al netto delle mediazioni necessitate dallo scenario di collaborazione con un partito “pompiere” come la DC, fortemente ispirata dall’esperienza dell’austro-marxismo e della socialdemocrazia europea.
La scelta del campo atlantico non preludeva, all’inizio del gennaio 1947, alla smobilitazione di quel patrimonio ideologico; semplicemente, costituiva, da un lato, il netto ripudio di qualsiasi sudditanza all’egemonia del PCI entrato nell’orbita sovietica, e, dall’altro, l’opzione occidentale, potenziata dalla volontà di condividere equilibri ispirati dalla moderazione e dal riformismo possibile.
Come noto, Nenni, promotore della scelta avversa, non fu, come facili vulgate per mezzo secolo fecero intendere, un convertito alla sudditanza al Cremlino. La sua scelta, rivelatasi erronea nei risultati pratici, fu dettata dalla presunzione di tenere unita la sinistra italiana, in vista delle impegnative sfide, e di poterne assumere la leadership in senso riformista.
I risultati delle elezioni dell’aprile 1948 diedero ragione a Saragat. Gli sviluppi successivi, con il declino ed il depotenziamento dell’alleanza centrista, avrebbero dato ragione a Nenni.
Dal 1953, con la morte di Stalin e con l’esaurimento del degasperismo, i giochi si sarebbero riaperti. Il PSDI di Saragat ed il PSI di Nenni avrebbero fatto squadra per vincere sulle anomalie della politica italiana, per aprire una stagione di intenso riformismo, per europeizzare la sinistra, fin lì dominata dal maggior e più nefasto partito comunista d’Occidente.
Ma non sarebbe stato, nonostante la feconda stagione riformatrice dei primi anni sessanta, cui Saragat e Nenni dettero un forte impulso, un lieto fine. L’anomalia italiana, rappresentata dalla collocazione ai confini della “cortina di ferro”, dalla invidiabile “fortuna” di avere a Roma la sede della cristianità, da quella specie di consolato monstre dei due maggiori partiti, la DC ed il PCI, avrebbe retto fino alla fine della prima Repubblica. E condizionato, anche, la sua scomposizione ed il suo deflusso nella seconda ed in questo contesto indistinto, ma coerente con le premesse e la maledizione del destino, che è il governo dei “professori e dei banchieri”.
Se si volesse interpretare in chiave passionale, ci si potrebbe appellare al saragattiano “destino cinico e baro”, più volte evocato in quei decenni di penalizzazione degli slanci socialisti. Anche se la ricostruzione di Coppetti non è mai stata, a dispetto del permanente aggancio fattuale, esente dalla passionalità tipica del testimone militante, va concluso che, parzialmente parafrasando El Alamein , ai socialisti italiani non mancò il generoso slancio, ma la fortuna o, semplicemente, l’opportunità di contendere alla pari.
Curiosamente, il giorno della conferenza di Coppetti, la rubrica di Sergio Romano del Corriere osservava che al socialismo di Saragat, elettoralmente indispensabile ad evitare che l’Italia finisse nel gorgo del “socialismo realizzato”, non arriderà pari riconoscimento di consensi e di ruoli di governo.
La storia si rifarà di questa ingiusta e sommaria sottovalutazione, restituendo, per quanto platonicamente, al socialismo democratico e liberale il riconoscimento di lungimiranza e di corretta lettura delle convenienze del Paese e dei lavoratori.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 


© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...