Avanti professore, fiero l’occhio e svelto il passo
Rigor Montis sta sfogliando la margherita (per carità, non quella di gnam gnam Lusi che pure, coi fondi del partito, ha decuplicato ville e reddito in cinque anni merito, sostiene la Gran Mascella, della sua “crescita professionale”). No, il professore vuole cancellare l’articolo 18, di cui si parla da una vita; vuole cancellarlo perché lo considera una brutta copia della defunta Unione Sovietica, “roba del ‘68” come ha spiegato il sociologo Alberoni (sempre in pista nonostante gli 82 anni ed un passato nel Cda della Rai). Un articolo vecchio, un tappo alla crescita, una barriera agli investimenti esteri e alle assunzioni. Un eccesso della “stagione laburista italiana” che galoppava il mito del contratto a tempo indeterminato e, appunto, l’intoccabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un “traguardo” che oggi taluni riformisti bollano come il frutto della prevalenza della cultura sindacale che si è affermata durante l’autunno caldo attraverso l’alleanza con il movimento studentesco. Tutto vero?
E’ vero che è tempo di decidere. Stiamo vivendo un dramma sociale assai inquietante:abbiamo il record di disoccupati, siamo fin qua in una crisi del lavoro che è la più nera dal 2001. Oltre 2 milioni di italiani sono a spasso, i disoccupati totali sono 3 milioni (se non ci fosse la Cig). I giovani sono quelli che stanno peggio: il 38,7% è a casa. Mica saranno tutti “bamboccioni”, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, o “sfigati” come recentemente si è lasciato scappare il vice ministro damerino Michel Martone; e nemmeno “mammoni” come ha affermato la sbrigativa Anna Maria Cancellieri, romana de Roma. O sì?
Rigor Montis (spalleggiato dalla Fornero piagnens) è dal 29 dicembre – cioè dalla famosa conferenza stampa maratona pre-Capodanno (31 domande da 23 giornalisti) – che parla di “fase 2” anti crisi e promette riforme su lavoro, liberalizzazioni e concorrenza. Ed è da molto prima che la pasionaria Camusso, alla guida di una Cgil “da anni Settanta”, come dicono i suoi detrattori, ne teme la realizzazione . Fin dal giorno del giuramento del governo bocconiano (16 novembre 2011) quando il professore garantì “sarà una corsa” e Berlusconi annuiva dicendo “siamo in buone mani” mentre piovevano su Roma gli elogi della strana coppia Merkel-Sarkozy.
Ora è tempo di procedere, fiero l’occhio e svelto il passo. Passera e la piemontesina Elsa hanno già detto che si farà la riforma anche senza l’accordo con i sindacati (“E’ un treno che non possiamo perdere”). Staremo a vedere. Molti giuslavoristi sostengono che questo traguardo (che si richiama al modello danese) è difficile da importare in Italia, prima occorre un salto sociale e culturale. Una parola, in un paese (vecchio) come il nostro, dove c’è poca formazione e molto sussidio.
E’ però anche vero che nel nostro paese è in atto un cambiamento di stile, di gusto, di linguaggio un po’ ovunque; persino in quei santuari conservatori che sono i giornali di carta e i salotti televisivi. Ciò che sembra non voler cambiare è la Politica nonostante in questi anni siano stati distrutti quattro partiti, siano nati movimenti e le cronache abbiano registrato arresti, suicidi, rottura di vecchie amicizie. Ed infatti la Casta ha finto di ridursi lo stipendio, il tesoriere della defunta Margherita ha incassato 13 milioni (tutti per sé?’), i magistrati non vogliono sentir parlare di responsabilità civile (le toghe vogliono restare impunite) e via dicendo. Ed allora? Allora avanti professore! Ci stiamo risvegliando in Danimarca. Forse.
Enrico Pirondini
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