Politica

L’invasione di Praga e il sogno dell’Europa

All’Ostello della gioventù di Miramare di Rimini, la notte fra il 20 e il 21 agosto del 1968, dove mi trovavo da un paio di giorni (giuntovi in autostop da Cremona), nessuno dormì. In Ostello albergavano una trentina di ragazzi cecoslovacchi venuti in Italia per la prima volta, sull’onda delle aperture politiche concesse nel loro paese dalla politica riformatrice di Alexander Dubcek, spinta dall’intento illuminato di promuovere un ‘socialismo da volto umano’. Ebbene, quella notte, ci ritrovammo tutti in lacerante ascolto di una radio di Praga, la cui voce concitata veniva tradotta per noi italiani da un ragazzo di Brno, il cui viso trasformato in maschera angosciata non potrò mai dimenticare. A fargli da spalla vi era pure un trentaseienne – che allora consideravo già ‘vecchio’ -, lo stesso che dormiva sulla branda a castello sopra la mia testa.
Quella fu una ‘diretta’ radiofonica tremenda: passo per passo seguimmo i rapidi movimenti dell’occupazione di duecentomila soldati sovietici e di qualche simbolico contingente del ‘patto di Varsavia’, giunti con i carri armati a troncare   la cosiddetta ‘Primavera di Praga’, un’illusione allora, ventuno anni prima del crollo del Muro di Berlino, un tentativo eroico e fallito di una classe d’intellettuali, di artisti e di operai destinata però a contagiare tutta l’Europa orientale, e a far germogliare al di là della ‘cortina di ferro’ una nuova speranza di democrazia non imbavagliata.
Va pure detto che quella notte nessuno si sentì particolarmente italiano o particolarmente cecoslovacco.
Quei ragazzi di Praga, Bratislava e Brno decisero seduta stante che la loro nuova casa sarebbe diventata l’Europa Occidentale. E tutti ci sentimmo figli di una stessa Europa libera e democratica, tutti appartenenti alla cultura e alla storia del Vecchio Continente, e ragionammo allora sui conflitti economici e militari, e sugli artificiosi confini dettati dalle ultime guerre mondiali. Nei nostri desideri vi era il superamento di quei confini ‘provvisori’, con un riferimento all’Europa quale ‘Patria comune’, senza pensare che nell’arco di quarant’anni il mondo sarebbe diventato sempre più globalizzato, e ricattato da un sistema di mercati finanziari che, per definizione, non ha radici, né confini, né morale, né ideali, né sentimenti umanitari. Ancor oggi possiamo constatare come ‘Europa dei cuori’ sia molto al di là da venire. Ma diciamo nel contempo: “Senza utopia è possibile la vita?”. E poi, non si è sempre affermato che la speranza sia l’ultima Dea? L’Europa confederata è l’ancora di salvezza dei popoli del Vecchio Continente. Certo anche in presenza della Cecchia e della Slovacchia, le due parti con le quali si è divisa pacificamente la ex Cecoslovacchia, dove oggi saranno sicuramente tornati quei miei amici oggi sessantenni.
Ed anche per l’Italia, che da sola non sa trovare il bandolo della matassa dei propri pregi e dei propri limiti e debiti, l’Europa confederata può diventare una seria prospettiva di emancipazione civile ed economica , sulla quale riflettere ed operare in chiave politica a tutti i livelli.

 

Agostino Melega

 

© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...